Stefania Marrone e Giancarlo Gentilucci rileggono Pirandello parlandoci del presente
Un orlo, un bordo. L’Aquila, San Demetrio ne’ Vestini, lo Spazio Nobelperlapace. Agli orli del teatro, ai bordi della vita, distanti da quell’immaginario asse virtuale di un centralismo teatrale che vive e circuita lungo direttrici principali fatte di città grandi e meno grandi, coi loro piccoli e meno piccoli spazi teatrali, ma in ogni caso raggiunte usualmente, con certa agevolezza, dal teatro che accade e circola.
L’Aquila, San Demetrio, lo Spazio Nobelperlapace e chi lo abita – la Compagnia Arti e Spettacolo, residenza riconosciuta del Ministero – rappresentano una realtà periferica nella geografia del teatro italiano; ed essere periferia, per giunta di un’arte la cui intrinseca perifericità risalta quotidianamente sotto il sembiante dell’asfissia economica con cui è quasi endemicamente costretta a convivere e fare i conti, vuol dire dover aggiungere un surplus di resistenza per chi insiste e persiste nel volersi fare (e rimanere) presidio culturale, in un’area che ha pure dovuto patire – e ancora patisce – le dure conseguenze del sisma del 2009; evento al quale si è reagito, rimboccandosi le maniche e continuando pertinacemente a restare punto di riferimento e centro d’aggregazione di un territorio.
Giancarlo Gentilucci e Tiziana Irti sono i fulcri di questa attività, attualmente svolta nello spazio di San Demetrio: un teatro da cento posti, del quale merita menzione la ricca biblioteca di settore, che assomma oltre settemila volumi; una rassegna, “Strade”, giunta alla sedicesima edizione, si accompagna a una serie di attività e iniziative sul territorio che hanno mirato (riuscendoci) a coinvolgere attivamente gli abitanti di un comprensorio che abbraccia L’Aquila e i comuni limitrofi.
È qui, in quest’orlo ricavato ai bordi del mondo teatrale, che si è significativamente scelto di realizzare un pirandelliano arsenale di apparizioni, ovvero una ‘stanza’ in cui far avvenire ciò che avviene nei sogni, materializzarli e dar corpo a “tutto l’infinito che è negli uomini”.
“I giganti della montagna” è, per struttura e contenuti, l’opera di Luigi Pirandello che maggiormente si offre a un ventaglio interpretativo e reinterpretativo di possibili variazioni e riscritture che la sua incompiutezza ci ha lasciato come un interstizio in cui drammaturgicamente intrufolarsi per rifarne uso, servirsene. Ed è inoltre, vista la sua eminente carica metateatrale, opera che ben si presta a diventare veicolo di riflessione sul teatro stesso. Ed è per l’appunto quello che fa Stefania Marrone (Bottega degli Apocrifi, Manfredonia, ovvero altro orlo, altro bordo, altra realtà liminare – ancorché virtuosa e meritevole d’essere seguita e raccontata – del panorama teatrale nostrale), alla quale è stato affidato il lavoro di scrittura di un’opera che parte sì dai “Giganti”, ne conserva spunti, alcuni dei personaggi e sentimenti di fondo, ma ne congegna libera rielaborazione che ha piena e autonoma dignità, indirizzando quell’intrinseca metateatralità verso una riflessione seria e faceta a un tempo sul teatro contemporaneo, sui suoi meccanismi spesso contraddittori, sulle difficoltà con cui è costretto quotidianamente a confrontarsi (scontrarsi) chi ha scelto di praticare quest’arte.
Lo spettacolo andato in scena a San Demetrio nasce durante la pandemia del 2020 – altro evento drammaticamente ostativo con cui s’è dovuto fare i conti – ed è una commistione quanto mai sensata tra chi il teatro lo fa e chi del teatro abitualmente fruisce, perché vede in scena attori non professionisti, provenienti dai laboratori di Arti e Spettacolo, guidati dalla professionalità di Stefania Marrone, di chi dirige (Giancarlo Gentilucci) e di chi li ha formati (Tiziana Irti), oltre al sapiente lavoro delle maestranze tecniche del gruppo. Questa scelta, al netto della qualità attoriale (che comunque, va detto, fatto salvo qualche perdonabile inciampo assurge a livelli di dignità tale che, mentre s’assiste allo spettacolo, facilmente ci si dimentica che quelli in scena non siano attori di professione), funge da gioco di rifrazione, mettendo allo specchio teatro e platea, mescolando le carte e sparigliandole, facendosi così volano per una riflessione sul contemporaneo, su quelle problematiche che il teatro lo affliggono e che a ogni occasione riemergono, s’esacerbano e s’esasperano, ingenerando recriminazioni, rimostranze, conflitti su numeri e nomine, su bandi e rendicontazioni, su criteri quantitativi e qualitativi.
Su queste cogenze s’innerva il lavoro di riscrittura di Marrone, il cui testo prende i “Giganti” di Pirandello come malleabile spunto di partenza e li rimodula attagliandoli a una riflessione plausibile sulla pratica del teatro d’oggigiorno. Della scrittura originaria si conservano parte dei personaggi (coi loro nomi); l’ambientazione si sposta dalla villa della Scalogna ad una stazione parimenti “scalognata”, in cui i treni non passano e s’aspettano come se, a condurli, dovesse essere un qualche Godot sferragliante, dal ‘mito’ – essendo “I giganti” l’ultimo dei tre miti pirandelliani – alla ‘realtà’, in uno slittamento di senso coerente con la possibilità di rielaborare un testo del passato per coniugarlo al tempo presente. È come se si prendesse spunto da quel passaggio del primo atto in cui Cromo dice ch’essi (la compagnia della Contessa) abbiano dormito in una stazione ferroviaria, sulla panca d’una sala d’aspetto di terza classe. Ebbene, quella stazione si trasfigura nella Villa della Scalogna, anzi la soppianta, con tutto il proprio carico simbolico e immaginifico, perché “non si dà mai il caso di dirla, la verità, come quando la s’inventa”.
E la verità che qui s’inventa è quella fattuale del teatro d’oggi, in cui quella scalcagnata compagnia d’attori fatta di “gente che gira per stazioni di notte” diventa paradigmatica degli affanni d’un mestiere, delle difficoltà con cui si porta avanti una tournée, di un modus vivendi fatto di viaggi disagevoli, pasti frugali, montaggi e smontaggi veloci prima di rimettersi in cammino, affrontando un altro viaggio disagevole, verso un’altra stazione, un altro teatro, altri pasti frugali, altri montaggi e smontaggi veloci, sperando in un pubblico minimamente cospicuo che venga ad assistere e in qualche critico benevolo che magari si degni di scrivere e dar testimonianza di quel lavoro, talvolta destinato pure a non più replicare.
E così, questa compagnia di giro, va a consegnarsi nelle mani del mago Cotrone, tentando di fare “giorno in questa notte”, abitando una scena sul cui fondo campeggia una massa scura (la montagna), mentre un orologio rotto in un angolo sancisce l’ingiuria del tempo che per quest’arte sembra essersi fermato ad ataviche e irrisolte problematiche; sul palco di questa stazione strappata alla realtà per farsi apparizione di fantasmi si muovono attori che hanno bisogno di essere creduti per credere in sé, per riuscire a far credere a sé stessi che esistono e che possono essere riconosciuti. Li accoglie la Sgricia di vedetta, appollaiata su una scala, mentre la scena è tagliata da una linea diagonale, come a volerci rammentare la trasversalità del teatro tra passato e presente, tra un’opera scritta quasi cent’anni prima e la sua rielaborazione proposta quasi cent’anni dopo. La compagnia della Contessa raggiunge questa stazione immaginifica su un carretto che è metonimicamente rappresentato dalla sedia a rotelle su cui si sposta la Ilse di questa rappresentazione, vera e propria portavoce delle istanze della teatralità attuale, del desiderio che il teatro esista in mezzo agli uomini e incida, anche magari creando una ferita, una faglia, una crepa dentro cui guardare per rendere un servigio alla società, agli spettatori, agli uomini; infatti, come nel finale del II atto pirandelliano la Contessa reclama che il teatro debba vivere in mezzo agli uomini, qui in quest’atto unico ella prorompe, illuminata da una luce tutta per sé, in un monologo che rivendica la dignitosa magia del teatro: “Tutti si meritano un teatro scandaloso, che faccia inciampare negli invisibili, che ricordi ai teatranti cos’è il teatro, che trasformi un vaso in un’aiuola, un cesso in una cappella e che vi faccia tremare tutte le volte al pensiero che non avete capito niente della vita”.
Nel loro sospeso pascolare ai bordi di una stazione con un solo binario, i nove personaggi interagiscono discettando di teatro, interrogandosi sulla propria presenza in quel luogo-non-luogo (la stazione) e sulla propria funzione in quell’orlo di vita (il teatro), intercapedine sospesa tra realtà e finzione “dove s’ha tutto e non s’ha bisogno di niente”; si preparano a raggiungere – se mai un treno dovesse passare – un festival chiamato significativamente “Mors tua vita mea”, perché spesso l’ambiente teatrale si trasforma in una selvaggia lotta per la sopravvivenza a scapito degli altri, in un ambiente cinico e covante rancori apparentemente sopiti.
Si snocciola così un campionario di criticità peculiari del settore: il 70/30 che può diventare anche 60/40, il teatro d’innovazione e ricerca che tante volte non si sa bene cosa innovi o cosa veramente ricerchi, le presentazioni progettuali di un lavoro, di una compagnia, vuote e pompose, altisonanti supercazzole scritte da addetti ai lavori per altri addetti ai lavori, progetti da presentare ai festival, compagnie under qualcosa, rendicontazioni e bandi, l’inseguimento di critici più o meno autorevoli di giornali e blog, gli “spazi altri”, i “luoghi non deputati” nei quali si fa teatro, con la scusa della valorizzazione di un bene o di un territorio, i compromessi, gli scambi, l’accettazione di condizioni al ribasso.
A questa prigionia esercitata dal teatro su chi lo pratica, “I giganti e noi” risponde creando un ponte invisibile tra presente e passato, tra realtà e finzione, rendendo possibile l’equazione tra il fare teatro e l’essere fantasmi che vaporano, sancendo l’incontro tra anime fragili che provano, recitando, ad essere felici.
Tutto questo è quel che ci racconta “I giganti e noi”, con la sua cifra espressiva surreale irreggimentata in una facitura d’impianto classico. Spettacolo godibile, a tratti delizioso, è congegnato per dar corpo a un sogno; una messa in scena ‘alla vecchia maniera’, che ottempera a un’idea di teatro tradizionale che è quella che di base hanno (avevano?) coloro che sono andati in scena.
Ma la domanda che, sottotraccia, suggerisce questa messinscena è proprio se esista davvero, e sia così marcata e pregna di senso, una distinzione fra un teatro ‘vecchio’ e un teatro ‘nuovo’, a prescindere da ciò che si rappresenti, o se invece non si debba parlare di teatro ‘buono’ o ‘meno buono’, accomunati dalla medesima difficoltà ad emergere, ma differenti per l’onestà di fondo che li anima: ecco, “I giganti e noi” è un tentativo di interpretare il presente, di parlare del teatro attraverso il teatro, con un testo ‘vecchio’, messo in scena in maniera ‘tradizionale’, eppure che dimostra di saper parlare un linguaggio ‘nuovo’, congruo ai temi che tratta, capace di far vaporare fantasmi emergenti dal passato per dar loro sembianza di apparizioni presenti e tangibili. Un tentativo onesto. E, per questo, riuscito.
I giganti e noi
da I giganti della montagna
di Luigi Pirandello
testo Stefania Marrone
regia Giancarlo Gentilucci
con Antonella Aloisi, Gilda Bernabei, Luisa Chelli, Ilaria Ciocca, Marzia Ippoliti, Romina Masi, Daniele Tomassi, Gianni Ulizio, Adriana Zuffranieri
musiche Diego Sebastiani
formazione Tiziana Irti
scenografia e luci Daniela Vespa
costumi e assistente alla regia Sara M. Cocuzzi
foto di scena Paolo Porto
organizzazione Giorgia Tortiello
durata 1h 10’
applausi del pubblico 3’
Visto a San Demetrio ne’ Vestini (AQ), Spazio Nobelperlapace, il 21 gennaio 2024