“I Macbeth” di Vetrano/Randisi. Il male, eterna ossessione

I Macbeth (ph: Luca Del Pia)
I Macbeth (ph: Luca Del Pia)

Francesco Niccolini parte da Shakespeare per arrivare alle stragi dei giorni nostri

Tragedia del sangue, il “Macbeth”. Dell’efferatezza ingenerata dalla brama di potere. È cupa e notturna, permeata come da un senso di ineluttabilità del delitto che l’attraversa tutta, intrisa di paura e sgomento: sangue e ricordo del sangue, sangue che chiama altro sangue, nella vana rincorsa di un potere che comunque sfugge. Tutto ciò ne fa un archetipo – come tante volte accade nelle tragedie shakespeariane – dei meccanismi che atavicamente guidano, regolano, indirizzano l’agire umano.

Indagare quest’umano meccanismo, andarne a scrutare i piccoli gangli nel loro cigolante stridore è quel che si propone questa riduzione (riscrittura) che ne fa Francesco Niccolini per la regia di Enzo Vetrano e Stefano Randisi. Riscrittura (“molto liberamente ispirata”) che rientra nel solco di una collaudata pratica esercitata dallo stesso Niccolini, ad esempio con i lavori su “Romeo e Giulietta” (2012) e “La bisbetica domata” (2015) rielaborati in chiave pop e contemporanea, e portati in scena da Factory Compagnia Transadriatica per la regia di Tonio De Nitto.

Qui l’operazione di riscrittura assume contorni diversi, spogliandosi degli abiti della commedia capace di raccontare anche vicissitudini drammatiche ammantandole di un velo sorridente, e vestendosi invece dei panni del tragico contemporaneo, di quel sanguinolento e certe volte addirittura grandguignolesco sgomento che accompagna la narrazione mediatica di casi di cronaca che in questi anni hanno fatto più scalpore. Storie che riempiono le colonne di nera, servizi che aprono le cronache dei telegiornali, trasmissioni a tema che indugiano su una vera e propria ‘pornografia del dolore’ e che ritroviamo morbosamente pullulanti nei palinsesti televisivi generalisti.

L’intento di quest’operazione drammaturgica è, se vogliamo, sociologico, cioè partire dall’universale macbethiano e calarne i meccanismi nel particolare contemporaneo, provando ad andare alle radici dell’aberrazione, nel fondo del fondo di certa efferatezza la cui brutalità entra nelle nostre case di spettatori, ma anche di potenziali protagonisti; perché spesso si tratta dei delitti della porta accanto, commessi da chi non avremmo mai creduto capace di tanto.
In questa traslazione, la bramosia di potere che muove i protagonisti della tragedia di Shakespeare lascia il posto a qualcosa di più sottile, ad un’ossessione a compiere il male che pure apparteneva ai coniugi Macbeth, ma che, vista nel mondo di oggi e scandagliata secondo le categorie attuali, sembra avere ancor meno plausibilità, suggerendo interrogativi (inevasi) sulle scaturigini profonde del senso del nefando che abita la nostra società.

Immaginando questo panorama, Niccolini (alla scrittura) e Vetrano/ Randisi (alla regia) portano “Macbeth” nella contemporaneità; innanzitutto declinandolo al plurale: “I Macbeth” è titolo che sembra volerci suggerire che, come per Shakespeare la tragedia del sangue avesse di fatto due protagonisti in un’anima bipartita e unisona – Macbeth e la Lady, lei più ancora di lui – oggi, nello slittamento contemporaneo, è come se questa coazione al male abbracciasse una pluralità indistinta. Questa pluralità di nequizie assume su scena l’aspetto di una grande struttura quadripartita: potremmo essere all’interno di un carcere psichiatrico; sotto una pesante pensilina a grata in metallo, quattro figure occupano, ciascuno accomodato su una sedia di fòrmica, altrettanti spazi angusti, come celle chiuse su tre lati e aperte verso la scena. Vestono abiti contemporanei e, prima di diventare portatori delle proprie storie truci, in loro riecheggiano le parole del “Macbeth”, di Macbeth e Lady Macbeth; il delitto, le paure, l’impossibilità di tornare indietro, l’imprescrittibile tormento: “Mi sono spinto tanto avanti ormai nel sangue che tornare indietro adesso sarebbe penoso”.

Un barbaglio di luce illumina le fattezze di chi, di volta in volta, dal fondo della scena si fa avanti per animare il racconto. Quattro attori (Giovanni Moschella, lo stesso Vetrano, Raffaella d’Avella e Giulio Germano Cervi), quattro figure in successione, che da principio restano nell’alveo drammaturgico scandito dalle parole del Bardo, portatrici della necessità del sangue, soprattutto nella compiuta crudeltà della Lady; poi, allorquando il quarto di loro, il più giovane, Giulio Germano Cervi, nel confino del suo spazio scenico, accende una radiolina che sentiamo sfrigolare, c’è il passaggio dal classico al contemporaneo, dalla drammaturgia alla cronaca che su di essa s’innerva, con conseguente mutazione del registro espressivo degli attori, che passano con disinvoltura dai toni più austeri del recitato a quelli più colloquiali del parlato.

Da lì in poi è un gioco di rimandi e di alternanze, una messa in relazione del male che fu con le truculenze dell’oggi, raccontate con dovizia di particolari, con cinico indugio sui dettagli anche più raccapriccianti e nelle quali è possibile riconoscere casi di cronaca di pubblico dominio la cui eco mediatica è stata così forte da farli entrare in una sorta di immaginario collettivo della nefandezza.

Così lo spettacolo diventa una sorta di viaggio al termine della notte di questo tempo, che fa pendant con la notte macbethiana, la narrazione si sposta da fondo scena al centro, accompagnata da un disegno sonoro che l’ammanta dei toni del cupo e la punteggia di clangore metallico, a evocare fendenti di lame vibrati nel buio. Luci cangianti che s’impennano nelle nuance di sanguigno rossore rimarcano il clima di cruenza. Corpi di manichini trasportati a braccia in scena danno sostanza visiva alla perpetua carneficina in atto, a cui si dà centralità narrativa.
Fino al climax straniante di Vetrano/Macbeth & d’Avella/Lady che danzano sulle note di “Ciao amore, ciao” cantata da Dalida, cortocircuito tra la crudeltà perpetrata e l’apparente normalità del contesto in cui è deflagrata. Figure in cui non è difficile riconoscere Olindo Romano e Rosa Bazzi, i coniugi di Erba accusati della strage dei vicini nel 2006.

Cosa ci racconta tutto ciò? Dove va a parare questo spettacolo? “I Macbeth” sembra volersi incuneare nelle viscere di una coscienza collettiva che altresì sfugge alla razionalità di spiegazioni plausibili; pare voglia indagare quel vacuum di senso di questa società che, come Macbeth stesso, rifiuta che un barlume di luce possa illuminarne i pensieri più cupi e profondi. È un indagine – o almeno un tentativo – su radici di un male che ha ridotto al sonno la ragione e ha generato mostri, un male dalla banalità di arendtiana memoria, che si compie con la leggerezza dei gesti quotidiani, con la stessa normalità con cui si sorseggia una tazza di caffè e si fuma una sigaretta.

La costruzione drammaturgica è valida, ha i crismi del lavoro fatto bene, così come restano negli occhi e nelle orecchie la possente scenografia e il panorama sonoro che accompagna lo spettacolo. Eppure, al netto delle buone prove d’attore degli interpreti in scena, è come se qualcosa di questo spettacolo non arrivasse del tutto a compimento, come se quell’intento dichiarato e portato avanti patisse di un’impostazione eccessivamente didascalica, dalla quale discende la sensazione di aver assistito a un buono spettacolo, ben confezionato, ma privo di uno slancio in grado di prendere quanto offerto in visione e farlo diventare veicolo di un valore ulteriore, andando oltre la semplice descrizione di fatti efferati.

Registrato che la Storia, da Macbeth ad oggi, produce e riproduce le dinamiche del Grande Meccanismo, rimaniamo al cospetto di un male inane e senza redenzione. E così come il sangue versato nella tragedia shakespeariana non produrrà (involontariamente) altro che una corona per il figlio di Banquo, così la documentata aberrazione dei delitti odierni non riesce a lasciarci altro che una consapevolezza che già avevamo.

I Macbeth
molto liberamente ispirato a William Shakespeare e a stragi dei giorni nostri

di Francesco Niccolini
regia Enzo Vetrano e Stefano Randisi
con Enzo Vetrano, Raffaella d’Avella, Giovanni Moschella, Giulio Germano Cervi
scene e costumi Mela Dell’Erba
luci Max Mugnai
foto Luca Del Pia
produzione Arca Azzurra
in collaborazione con Cooperativa Le Tre Corde/Compagnia Vetrano-Randisi, Teatro Comunale di Imola Lo Stignani

durata: 1h 10’
applausi del pubblico: 2’ 10’’

Visto a Napoli, Teatro Nuovo, il 21 marzo 2024

stars 2.5

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