Dall’opera di Schiller, l’adattamento in prima nazionale al Teatro Basilica di Roma
Partiamo, per una volta, dagli effetti: “I Masnadieri” messi in scena da Michele Sinisi, al debutto al Teatro Basilica di Roma con grande successo e tenitura impensabile altrove nella capitale (tre settimane piene), ora pronti per la tournée, come fanno ad afferrare per più di due ore lo spettatore in modo così saldo e insieme così onesto, senza cedere da un lato all’immedesimazione pura, al patetico, e dall’altro alla seducente connivenza con lo spettatore, a un’alleanza per così dire impura, “contro” un’opera così ardua?
Certo, potrebbe essere letto come alleggerimento il fatto che gli attori si permettano sortite extradiegetiche, e anzi quella epica è la dimensione prevalente nel lavoro, come dimostrano le due file di sedie per gli attori non in scena, ai lati del palco, attori che non fanno mistero della loro vera identità, presentandosi, a turno, con nome, cognome, età e breve, spesso comica, autodefinizione.
Né manca quella dissacrazione del testo d’origine che, pur greve, persino triviale (una coppia di masnadieri mostra la propria noia durante un monologo del protagonista, un terzo emette addirittura un peto), non fa mai della ridicolizzazione l’obiettivo finale dell’operazione. E non è trascurata, appunto, nemmeno la comicità crassa, la violenza spinta al parossismo, l’effetto, l’effettaccio – eppure no, nemmeno questi sono sbandierati come tappe raggiunte.
Ci si potrebbe allora chiedere se ci sia qualche oscura o palese connessione con la contemporaneità, latitante nel testo di Friedrich Schiller (1781 in volume, messo in scena l’anno successivo), accolto alla sua pubblicazione come opera di un tanto auspicato “Shakespeare tedesco”; se ci sia insomma, in quei cinque atti, qualcosa che parli a noi, quaggiù nel 2024 – ammesso che esistano urgenze filosofiche, morali capaci di comprenderci oggi, tutti insieme ormai nel mondo, non più nella Germania dello Sturm und Drang, da metterci tutti insieme di fronte a un comune baratro.
A riassumere brutalmente la trama dell’opera (cosa forse poco utile, data Wikipedia), la storia è quella di un angelo vendicatore proveniente da questo mondo (Karl Moor, il figlio dalle belle speranze, sabotato dal fratello Franz) che, escluso dalle leggi sociali della famiglia per l’inganno subìto, si esclude volontariamente da quelle dell’umanità, ponendosi a capo di una banda di masnadieri attendati nella foresta boema, macchiandosi con essi e attraverso di essi di crimini orrendi, per i quali, come letteralmente dichiara, non può più “tornare indietro” (“tu sei nostro” gli intimeranno i suoi fidi quando per un attimo, morto l’usurpatore, Karl crederà di potersi ristabilire nella pace riacquistata, di tornare ad amare l’incrollabile Amalia).
Si tratta, per Karl, di una posizione politica tale da mescolare in lui la brama dionisiaca della distruzione con un movente però di cauterizzazione delle ingiustizie, un tentativo del singolo uomo di farsi sostituto della Provvidenza quanto essa sembra latitare, caricando sul gracile organismo di un singolo il peso di un dio vendicatore.
Diversa è la posizione del fratello usurpatore, che baratta l’universo morale con un antitetico, per quanto ben più misero, panorama di ascesa personale, macchiato di psicologismi, odio/amore del padre – una posizione mirabilmente resa da Gianni D’Addario, che lo incarna, e dalla regia che lo pone, fragile e quasi privato dello scheletro, sempre addossato ora a un muro, ora a uno stipite, ora a un pilastro, come se fosse composto di materia molle, consapevoli dell’esistenza di un tema del “corpo umiliato dalla mente” in Schiller.
Il tema morale è pertanto nella tragedia tedesca (e molto meno nello spettacolo di Sinisi) sottoposto a una visione ancorata al Cristianesimo, e in generale a una filosofia della Storia che, negli scritti del ventenne autore, si trasfigurava l’immagine della de-virilizzazione dell’uomo moderno, incapace ormai di imprese pari alle greche o alle romane – e chi non vi riconoscerebbe il tono tempestoso delle Canzoni del giovane Leopardi?
Ma la nostra proposta è che non sia un cosa, ma un come, a legarci insieme a questi masnadieri e a quel Karl Moor. E, data per assodata la straordinarietà di pressoché tutte le prove attoriali, non sia la spendibilità del tema politico-morale a ottenere quel legame, ma una questione squisitamente drammaturgica, schiettamente strutturale e, come sempre, dunque, generale, un pensiero che vola alto sull’atto proposto in scena.
Il lavoro sul testo di Schiller non si limita infatti a una corposa sfoltitura o a un aggiornamento, ma ha richiesto a Sinisi e a Tommaso Emiliani, che vi ha collaborato, di immergere fino al gomito le braccia in quel magma, di operare in esso una serie di spostamenti e rimescolamenti la cui portata è tale da riscrivere “I Masnadieri”, pur senza esservi intervenuti nella lettera.
Le interpolazioni autografe dei due sembrano minime, o per lo meno sono poche quelle che saltano all’occhio, come il fulminante “Mi fa schifo questo spettacolo di merda!”, gridato da Hermann, il prezzolato messaggero della finta morte di Karl alla sua Amalia e al padre, in sostituzione probabilmente dell’originale “Non resisto allo strazio!”, detto in atto di abbandonare tormentato la scena, e perciò virato a una duplice astuzia.
Il lavoro sui “Masnadieri” è stato strutturale, e lo dimostrano anche pochi esempi: la prima parte del quinto e ultimo atto, con il suicidio di Franz, è spostata quasi in apertura; a fungere da chiusa è una sottile commistione del quarto con la seconda parte del quinto atto, in un gioco a tre fra il vecchio Moor (un devastato, raggrumato Stefano Braschi) appena liberato dalla prigionia, Amalia e Karl, sostituiti nelle battute dalla lettura di Amedeo Monda, fino ad allora comico e quasi afasico masnadiero, delegato tutt’al più a interrompere le scene con le prime battute, date da una piccola consolle in scena, del Preludio dei “Masnadieri” verdiani, ora invece asciutto burattinaio degli ultimi momenti della tragedia, sotto l’effige, in tessuto e viscere di cotone, di un ventre squartato di vacca; e ancora, l’ingresso di Kosinsky, sorta di doppio di Karl, nel terzo atto, non è mai rappresentato, ma più e più volte è narrato dai diversi masnadieri, in coda alle presentazioni dei rispettivi attori, di cui si diceva.
Questi e altri rimescolamenti degli eventi fin dal principio, con la morte di Franz Moor, hanno l’effetto di disarcionare ogni velleitaria corsa al finale, ogni peso deterministico della trama, persino la curiosità: essi permettono allo spettatore, cioè, di non affaticarsi con l’implicita, naturale richiesta di risoluzione degli eventi. Inoltre tali spaesamenti, che hanno del paradosso logico, queste ripetizioni-tormentone, costruiscono sulla scena un’opera-gorgo che è destinata, certo, a sprofondare verso il basso, ma che con la riproposizione ritmica, circolare, di temi ed energie e di misteriosi ma risaputi eventi, convertono in forma strutturale quell’arrovellarsi che, nella tragedia filosofica di Schiller, è delegato allo strumento dell’aperta verbalizzazione.
Grazie a tutto questo, e senza escludere la qualità di ogni elemento in gioco, dal “gancio” della recitazione dentro e fuori, alla tagliente scelta “nuda” della scenografia, questi “Masnadieri” riescono a creare una duratura sospensione non dell’incredulità ma del tempo reale, dei rapporti fuori scena e, pur senza fantomatiche illusioni, si avvicinano a dar vita davvero quel senso di assistere, o meglio di compartecipare, alla costruzione di una vita ulteriore, quella scenica, che è uno dei massimi esiti del teatro.
I MASNADIERI
da Friedrich Schiller
drammaturgia e regia Michele Sinisi
con Alessio Esposito, Jacopo Cinque, Gianni D’addario, Lucio De Francesco, Amedeo Monda, Laura Pannia, Lorenzo Garufo, Matteo Baronchelli, Stefano Braschi, Donato Paternoster
scene Federico Biancalani
aiuto regia Tommaso Emiliani
produzione Elsinor centro di Produzione Teatrale – Fattore k – Gruppo della Creta
durata: 2h 15’
applausi del pubblico: 3′ 10”
Visto a Roma, Teatro Basilica, il 24 aprile 2024
Prima nazionale