I miei drammaturghi preferiti? Gli attori! Intervista a Rita Frongia

Canelupo Nudo|Rita Frongia
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Rita Frongia
Rita Frongia
E’ luglio e siamo qui, a Mondaino, per il gruppo LGSAS (libero gruppo di studio d’arti sceniche) guidato da Claudio Morganti, che eseguirà a breve un coro dadaista. L’atmosfera al LGSAS è sempre qualcosa di molto allegro, ha a che fare con lo stare bene con altre persone – e a partire da questo stare bene germogliano pensieri, scoperte, epifanie, commozioni.

In uno di questi momenti – siamo in teatro dopo le prove, c’è una partita dei mondiali che attira l’attenzione di molti – inizio con Rita Frongia e altre amiche (Elisa Pol, Isadora Angelini) a parlare di teatro. Del senso, delle difficoltà, delle scelte che ci fanno arrabbiare e di quelle che ci stupiscono, delle forme esistenti e delle possibilità. Dell’estero e dell’Italia.

Poi parliamo di interviste, e che mi piacerebbe farne una a Rita su una pratica che in Italia trova parecchie difficoltà: il lavoro drammaturgico. Ho trovato in Rita un crescendo, nei suoi lavori, e trovo molto interessante che si occupi di riscritture in modo tanto viscerale, tanto personale. Mi sembra importante condividere queste riflessioni in merito, e l’occasione viene grazie a “Canelupo nudo”, l’ultima opera creata per la regia di Morganti; in scena Maurizio Lupinelli ed Elisa Pol.

Partiamo dall’antefatto: l’incontro con la scrittura di Schwab. Com’è confrontarsi con questo autore? Cosa ti ha colpito di più e cosa ti ha messa maggiormente in difficoltà?
Il primo incontro ravvicinato con Schwab è avvenuto per la riduzione/adattamento del testo “Le presidentesse” per la compagnia Nerval. È stato un avvicinamento circospetto, come quando ci si accosta a una bestia ferita. Ero intimorita dalla verbosità del testo, avevo l’impressione che tutte quelle parole non lasciassero spazio alla drammaturgia.
È stato il lavoro con gli attori a permettermi di intuire una fisiologia del testo, la sua architettura drammatica. Perché la fisionomia occupa uno spazio visibile sulla pagina, ma la fisiologia è la natura di quel testo, il respiro dell’autore.
Cerco sempre di distinguere fra testo e drammaturgia. “Le presidentesse”  ha sopportato il taglia e cuci – come i grandi testi – e così, sfrondato da parole e concetti, ci ha concesso di intuire una dinamica di gioco fra gli attori, e mi sono resa conto che l’opera aveva una vita teatrale segreta più ricca delle sembianze che le parole la costringevano ad assumere. In realtà ciò che si scopre è sempre l’autore. Non si conosce profondamente un testo drammatico finché non si prova a metterlo in scena. Le bestie ferite quando guariscono sono riconoscenti; ringrazio Schwab per la sua bocca amara che libera commedia. Comunque non leggere Schwab in tedesco è non leggerlo, dovrei dunque tacere.

Qual è secondo te il nodo centrale del discorso di Schwab?
Prima di leggere “La mia bocca di cane” ti avrei detto l’ipocrisia, il potere nel suo esercizio quotidiano, la violenza che non sa di esserlo, la merda declinata in ogni sua forma. Le sue sono figure calcificate, non riescono ad avvicinarsi all’altro, sono come una scatola di cartone che si ripiega in sé perché vuota, sono i resti di scoppi di livore, hanno in bocca il sapore di bile. Ma ora ti direi che il tema è l’assenza dell’amore, perché è assente, totalmente, e questa cosa mi turba e mi attrae. È difficile che l’amore non faccia una qualche incursione anche rapida, invece nulla, nulla.
Dopo aver letto e riletto “La mia bocca di cane” ho fatto proprio amicizia con Schwab, è un testo lirico che risponde con feroce  irrisione a tutti i pigri di mente che fingono di confondere la parola merda con la merda vera. È un testo dove la penna va libera, non si preoccupa della logica di senso e di rappresentazione. A tratti è straziante per la sincerità, immagini proprio lui, l’autore, solo e coi tremori di alcool e coscienza. È un testo apparentemente irrappresentabile. Finché qualcuno non ci proverà e potrà dire com’è l’intimità con “La mia bocca di cane”.

Canelupo Nudo
Elisa Pol e Maurizio Lupinelli in Canelupo Nudo (photo: Guido Mencari)
Come hai portato avanti la tua scrittura? Hai rielaborato brani ‘a tavolino’? Hai lavorato con gli attori?
“Canelupo nudo” è un copione originale. Non c’è neanche una battuta di Schwab. Ci sono invece dei materiali di Lupo (Maurizio Lupinelli, n.d.r.) che ora come ora, tra il vero e il sorriso, è il mio autore di riferimento, la sua capacità di far esplodere la lingua, sintetizzando concetti in un vocabolo apparentemente errato, mi ha fatto conoscere una libertà altra nella scrittura di canelupo. Ho scoperto nei fatti ciò che dice Schwab, ho trattato le parole come cose da trangugiare e come barattoli, rotolano e sono lì per essere distrutte dalla visionarietà degli attori (e dalla concretezza della scena).
Ho scritto per prima una canzone “la mia vita è un’edera senza muro”, è stata anche la prima cosa che abbiamo provato, ci ha alleggeriti e abbiamo ingoiato subito una pillola di amarezza comica. Quando abbiamo cominciato a provare avevamo del materiale che avevo scritto, scene e canovacci e ipotesi di scene. Le ho scritte immaginando Lupo ed Elisa, proprio loro, non nel senso della biografia ma della loro fisiologia, della loro indole sul palcoscenico, di una loro possibile relazione di coppia teatrale, immaginavo una cronaca dei due attori catapultati nella commedia umana.
Poi, mentre si provava, ho riscritto, ho riconsiderato alla luce delle proposte degli attori, delle parole luminose di Claudio; mi faccio sempre travolgere dagli eventi della scena. Lupinelli e Pol sono molto generosi, è stato divertente lavorare insieme. Con Claudio – prima di cominciare le prove – ci si diceva: proviamo a oscillare dalla forma commedia a un’altra indefinita, indefinibile, variabile ma con un immaginario rivolto alla stand-up comedy. Si parte da cose piccole, si viaggia al buio, il divertimento vero è cominciato quando Lupo mi ha fatto leggere i suoi appunti sul mondo Schwab,  parevano gemelli dei miei scritti  e allora  ho trovato quel coraggio che dà l’illusione di trovarsi in un processo mimetico, così come  accade per la scena, mi è necessario anche nella scrittura per gli attori. Ho dovuto abbandonare “La mia bocca di cane” per trovare poi in “Canelupo nudo”, non i testi di Schwab, ma proprio lui, Werner. Nel lavoro abbiamo ritrovato la sua forma punk. Forse “Canelupo nudo” gli piacerebbe anche se è un lavoro che ha molta pietà.

Qual è la tua visione del rapporto scena-parola? Nei tuoi testi emerge sempre uno stretto legame attore-pensiero, corpo-incorporeo, alto-basso; e non parliamo di dicotomie, ma di facce di una stessa medaglia. Come lavori per rendere questa unità?
La parola è uno degli elementi della scena; analogamente alla vita le parole subiscono un tradimento, dicono il falso: “I personaggi mentono” dice Pinter. Mi rendo conto di farne un uso parco sulla scena e mi ritrovo sempre a escludere le parole dal colore “quotidiano”. L’avvertimento di realtà è dato da una frattura del linguaggio, da un particolare apparentemente estraneo, è  l’antiabitudine. Mi ritrovo a schizzare fra immagini inconciliabili, come se il linguaggio dovesse imprimersi come una scheggia. “La vita ha un dente d’oro”, per esempio, è un vaso rotto e mi pare che alla fine sia possibile immaginare i frammenti come parte di un unico pezzo, dissemino la lingua di indizi (la nostra logica poi ‘unisce i puntini’). L’unità vera è poi solo una: la relazione degli attori sulla scena. Se penso anzitempo  all’unità mi impietrisco. Faccio finta di non pensarci quando scrivo, perché so che poi in prova – come dramaturg – sarà invece l’occupazione prima, la fatica più grande. L’unità deve risultare da una marea di cose: gli attori, la regia, le necessità o quale grado di sincerità c’è nel testo, le condizioni di lavoro, e ci vuole anche un po’ di fortuna.

Pensi che il teatro sia un’occasione di uscire dalle ‘storie’, dalle ‘trame’, o un nuovo modo di raccontarle?
È impossibile non immaginare una storia; se io poso sul tavolo una pera e una benda, immediatamente il cervello cerca relazioni, costruisce ipotesi narrative, il più delle volte rispondenti a una logica. Io cerco di scongiurare la narrazione, mi porta una logicità che mal si coniuga con il lavoro della scena. Gli attori mi suggeriscono ipotesi di fisiologie, quando beviamo un caffè, quando proviamo, quando faticano. Vorrei scrivere cronache di corpi e non di fatti. Vorrei che i fatti fossero quelli della scena, la cronaca degli accadimenti drammatici, l’avvertimento di sincerità, vorrei essere illuminata dal faro dell’idiozia. Non cerco consolazione nelle parole, la cerco nell’atto della scena.

Quali sono gli autori (sia ‘classici’ che ‘viventi’) che più stimi, e perché?

Sono ‘rovinata’ da una frequentazione di anni con Buchner – una passione lunga – e quindi dico Buchner come mio preferito (ma dico anche Shakespeare e Beckett…), e poi penso a Carver, a quanta vita ci può essere in ritagli ritagliati ad arte.
Comunque, in questo momento, i miei drammaturghi preferiti sono gli attori che provano, e quindi potrei nominare le persone con cui ho lavorato ultimamente, “perché in un modo di fare, in uno sguardo, in un ritmo è nascosta l’essenza delle cose” (dice Buchner in “Lenz”). Penso a Francesco Pennacchia, capace di catapultarmi in un secondo in immagini impensabili, in umanità sintetizzate in un movimento, è uno sterminatore di stereotipi. Penso a Gianluca Stetur, quella leggerezza solida nella concretezza umana del suo andamento, dei suoi pianissimo, sento la sua tortura del tempo. Penso alla lucidità di Morganti, che muove noi tutti a una tensione verso il cristallo, uno sforzo fallimentare certo, ma è un attraversamento che fa girare la testa. Penso a molti altri attori, soprattutto italiani, capaci per tradizione e disperazione a improvvisare e costruire disegni di drammaturgia degni di pubblicazione, se si pubblicassero i copioni. Gli attori sono i miei mastri di drammaturgia.

Qualcosa da aggiungere?
Sì. Sono così poco rispettati gli artisti e così ignorati i poeti! Com’è possibile? Com’è possibile non desiderare questa ‘bellezza amara’?
 

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  1. says: azzurra d'agostino

    il più grande esperto di schwab che ci degna del suo commento, peccato sia con pseudonimo- ché così non possiamo andare a leggere i suoi lavori di saggistica e riscrittura! ah, no, è vero, per farsi un’opinione non servirebbe nemmeno approfondire un minimo. va là va là …

  2. says: whatever

    cara Rita, non ho avuto modo di vedere il tuo lavoro, ma da quello che dici di Schwab mi pare che tu non ne capisca un cazzo.