Come non lo è il dover reggere la scena per 90 minuti, parzialmente prima e totalmente poi interrati, e quindi senza potersi servire di nessun mezzo espressivo se non quello della voce e della mimica facciale.
“Giorni felici”, si sa, è un testo tanto bello quanto impegnativo. E se da un lato rappresenta quasi una tappa obbligata, o perlomeno fortemente desiderata, per attrici all’apice della propria carriera, dall’altro nasconde insidie inaggirabili, che mettono a dura prova la capacità attorale.
Perché il rischio, quello più facile da correre ma anche il più nefasto, è di annoiare lo spettatore.
Dire che Nicoletta Braschi sia caduta nella trappola sarebbe forse ingiusto, ma certo è che la sua Winnie non convince.
A mancarle è quella incisività senza la quale il chiacchiericcio della celebre Signora beckettiana – che, conficcata nel monticello, trascorre le proprie giornate scandite dal suono del campanello della sveglia e del sonno, ripetendo i soliti gesti quotidiani di lavarsi, pettinarsi e farsi le unghie – rischia di diventare un intercalare piatto e monotono.
D’altra parte Beckett non lascia molto spazio all’interpretazione personale, perché le note di regia danno istruzioni precisissime su cosa (come e quando) l’attrice deve fare, e a questa viene lasciata soltanto l’abilità di gestire l’intensità della performance, soprattutto dal punto di vista vocale e della mimica facciale. Una capacità che la Braschi riesce a far emergere di tanto in tanto, ma non sempre.
E’ altrettanto vero che la sua eccessiva pacatezza, se da un lato non le permette di dominare la scena, dall’altro le consente anche di non incappare nell’errore opposto, ossia quello di caricare eccessivamente il personaggio di una connotazione grottesca, dettata dallo scarto fra il trovarsi in una condizione disumana ed alienante e l’ostinazione di dichiararsi felice.
La drammaticità della pièce è difatti tutta racchiusa in questa dicotomia. E nell’insensatezza di un tempo che si ripete senza volgere a una fine e che i personaggi (gli uomini) trascorrono riempiendolo di nulla.
I gesti non sono quasi più permessi: se Winnie è paralizzata, il marito Willie – che di tanto in tanto esce dal suo “buco”, trasformato nella messa in scena di Andrea Renzi in un separé posizionato dietro la montagnola, riesce a muoversi soltanto strisciando. E anche le parole hanno perso la loro funzione significante e si fanno quindi suoni vuoti. Anche perché non ascoltati. O quasi (altro termine-chiave del testo).
Nel suo sproloquio incessante, Winnie si rivolge puntualmente al marito, ricevendo però in cambio perlopiù silenzio, qualche mugugno e poche parole cacciate di bocca.
“Giorni Felici” compie di fatti un’ulteriore sottrazione iniziata già in “Aspettando Godot” – dove peraltro ancora vi era la speranza che qualcosa potesse ancora accadere, speranza che in “Giorni Felici” viene completamente meno – ed è quella di privare il protagonista di un interlocutore.
Sebbene Winnie abbia l’illusione che qualche sua parola venga intercettata dal marito (“mi basta sapere che puoi sentirmi anche se in pratica non mi senti”), di fatto il suo è un monologare a tutti gli effetti.
Non resta che riempire il vuoto, accettare che anche la fine è un baluardo irraggiungibile: fra gli oggetti di Winnie c’è anche una rivoltella, ma sa di non poterla usare, così come non riesce a farlo il marito che nella scena finale protende una mano verso la moglie, o verso la pistola?, senza riuscire ad afferrare né l’una né l’altra. E convincersi che, in fondo, non ci si possa lamentare, dopotutto anche “questo è veramente un giorno felice, sarà stato un altro giorno felice”.
GIORNI FELICI
di Samuel Beckett
traduzione: Carlo Fruttero (Giulio Einaudi Editore)
con: Nicoletta Braschi e Roberto De Francesco
regia: Andrea Renzi
luci: Pasquale Mari
scene e costumi: Lino Fiorito
suono: Daghi Rondanini
aiuto regia: Costanza Boccardi
produzione: Melampo/Fondazione del Teatro Stabile di Torino
durata: 1h 30′
applausi del pubblico: 2’
Visto a Milano, Teatro Franco Parenti, il 16 novembre