Ho conosciuto Teri Jeanette Weikel nel 1998, vedendo due suoi spettacoli: “Atomi” e “Progetto Bartok”, e rimanendone incantata. Da allora seguo il suo lavoro come coreografa e insegnante.
Decido che val la pena parlare della sua arte e farla conoscere di più. Così decido di passare una gelida serata d’inverno al telefono con lei, per farle alcune domande sulla sua carriera artistica, sul suo essere coreografa.
Volto d’angelo, capelli dorati, Teri Weikel è figlia d’arte, classe 1957, appartenente all’ultima generazione di performer statunitensi.
Nata per la coreografia, nel suo gesto la danza si confonde con la musica, il corpo diviene linguaggio puro, a volte astratto, altre volte trasferitore di storie personali, o appartenenti alla letteratura, oppure traslazione delle partiture musicali in danza.
Tra le varie fasi importanti della sua carriera artistica, troviamo collaborazioni con Donald Byrd and the Group, la Gus Solomons Dance Co., Karol Armitage, il Cal-Arts Dance Ensemble, Dance/L.A., il San Diego Dance Theatre.
Poi, negli anni ’80, si trasferisce in Italia, curando le coreografie di numerosi spettacoli, partecipando a importanti rassegne e festival. Dal 1986 al 2006 è direttrice artistica di Tir Danza di Modena, mentre nel 2005 viene insignita del prestigioso riconoscimento quinquennale Distinguished Artist Award.
Tra i suoi lavori ricordiamo “La giacca”, “Questions on Point”, “Stanze parallele”, “Brevi amori di tartarughe”, “Rubi”, “Woodworks”, “Five on Red” e “Baglady”, “Avviso di ritorno” e “Anyway”, “Progetto Monk”, “Il Maestro e Margherita” in collaborazione con i musicisti Antonello Salis e Danilo Terenzi e l’attrice Luisa Pasello.
Attualmente insegna danza contemporanea tecnica Release/Floor work, è Feldenkrais practictioner, e fa parte di Artisti Drama.
Cosa vuol dire, per te, fare coreografia?
Usare un linguaggio che può esprimere dove la parola non arriva. Fare coreografia significa mettersi in ascolto di qualcosa che spinge a definirsi. Dare forma a qualcosa di indefinito, ma che vive nel profondo come una sensazione o un barlume. Significa mettere insieme dei passi, dei movimenti che poi verranno ri-creati da danzatori e guardati dagli altri.
Di cosa parlano i tuoi lavori?
Di incontri, di energie, di principi astratti e non.
Come definiresti il corpo?
Il corpo è ciò che mi fa muovere la testa, è l’ovvio illuso che mi mette in rapporto con me stessa e il mondo; è un continuo cambiamento, è un mistero, è un mezzo per fare, elaborare le idee, per renderci conto della temporaneità della materia, è quello siamo. Il corpo è abitato da sentimenti ed esperienze… Il corpo è autentico, non mente.
Come riconosci se c’è dell’arte in una danza?
Penso che sia molto soggettivo percepire l’arte. Quello che per me è arte forse per qualcun altro non lo è. Ma se un lavoro artistico mi cattura e mi porta con sé e poi mi rimane dentro dopo molto tempo probabilmente si avvicina a qualcosa di “oggettivo”.
Il tuo autore letterario preferito?
Mi piace molto leggere, e nel passato mi piaceva moltissimo Bulgakov, a cui ho dedicato un mio lavoro. Ma adesso non posso dire chi è il mio preferito. Amo Barbara Kingsolver, Paul Auster, José Saramago, Vincenzo Cerami…
E il tuo musicista invece?
Bach, Miles Davis, Mozart, Antonello Salis, John Surman, Thelonius Monk, Terry Riley, Debussy, Satie. Ci sono talmente tanti musicisti che è molto difficile dire chi sia il mio preferito.
Parlaci di un progetto che per te è stato particolarmente importante.
Quasi tutti i progetti sono stati importanti, ma forse “Progetto Bulgakov” e “Progetto Bartok” sono stati molto stimolanti perché la danza si incontrava con altri codici precisi e significativi. Ultimamente ho collaborato ad un progetto di ricerca fra teatro e danza. Ho lavorato accanto al regista Stefano Vercelli, che è cresciuto nel movimento dell’Odin Teatret di Eugenio Barba, ma soprattutto nel lavoro di Jerzy Grotowsky, maestro con il quale ha trascorso sette anni.
Come trovi il sistema della formazione in danza in Italia?
C’è molto lavoro da fare! Penso che ci siano molte persone di talento, che purtroppo vanno all’estero a studiare e a trovare altre situazioni per avanzare e far muovere il loro processo artistico. Finchè i politici e i capi delle istituzioni non prenderanno a cuore il valore dell’arte contemporanea, quindi anche la danza, non ci sarà uno sviluppo di eccellenza come in altri paesi. Occorre praticare di più, ma anche valorizzare il potenziale del corpo, fare conoscere i metodi e la ricerca nel campo…
Cosa pensi, invece, del fatto che molti giovani oggi siano definiti “autori” di danza?
Ogni volta che un danzatore danza diventa autore di quel momento. Essere danzatore non vuol dire essere un esecutore, un semplice soldatino che prende ordini. Il danzatore crea la danza tutte le volte che danza. Cerca in sé le proprie creatività e autenticità, quindi in un certo senso è autore. Non credo però che tutti i danzatori siano coreografi.
Come immagini la danza del futuro?
Non lo so. Il futuro è in divenire. Vedremo.