Il dio di Roserio. Gifuni nella fatica di Testori

Fabrizio Gifuni (photo: Filippo Manzini)
Fabrizio Gifuni (photo: Filippo Manzini)

Sbaglierebbe chi volesse leggere in Testori, specialmente nel primo Testori della Milano del dopoguerra, con le sue discese innamorate in un sottoproletariato destinato a essere schiacciato negli ingranaggi della “rinascita”, un “Pasolini milanese”.

Certamente la tentazione è forte: oltre a questa partecipazione agli squilibri e alle violenze dell’età del boom economico, c’è il rapporto stretto ma diversissimo nelle premesse, e ancor più negli sviluppi, con la Chiesa Cattolica e con l’ideologia comunista; l’amore – da un lato accademico, dall’altro figurativo – per l’arte sacra. Nell’ambito biografico, poi, ci sono l’omosessualità e l’attenzione per il basso, per l’energia della gioventù quand’è ancora viva e sorgiva, per l’immensamente basso e per l’alto; la fine prematura di entrambi, anche se diversissima nei pur drammatici svolgimenti.
E ancora, l’impossibilità di entrambi di limitare entro i confini di un solo genere l’ampio cimento che da teatro, a critica, a poesie, a narrazione ha coperto e vitalizzato la letteratura dell’Italia postbellica fino alle soglie (per Testori) del nuovo millennio.

Difficile sottrarsi alla tentazione, ma per farlo basta chinarsi sui testi, o andare a teatro. Tanto Pasolini s’è visto ultimamente a Roma, ora una gemma di Testori (con più frequenza frequentato dai teatri del Nord) rivive nella capitale attraverso la lettura scenica di Fabrizio Gifuni, inserita in un polittico monografico-attoriale dedicato dal Teatro Vascello alla grande letteratura, “L’autore e il suo doppio”: ecco allora Testori, dopo Camus e Pasolini (appunto), e prima di Cortàzar e Bolaño.

Gifuni, certo del cordiale affetto di un pubblico arricchito da una meritata notorietà televisiva e cinematografica – nella sala un brusio femminile ne accoglie felicemente l’ingresso -, ma non per questo meno cordiale e convincente nella presentazione dello spettacolo, legge “Il dio di Roserio”, primo racconto pubblicato dallo scrittore milanese, poi rivisto e riedito insieme ad altri testi ne “Il ponte della Ghisolfa” nel ’58.

Si parla del Pessina, ciclista dilettante destinato a una bella carriera, che nell’Italia di inizio ’50 milita nella squadra milanese “Vigor”, compagno di un altro forse un po’ meno dotato corridore, tale Consonni.
L’uno e l’altro, gara dopo gara, si scambiano il ruolo di gregario, finché durante una rovente “Coppa del Lago”, data teoricamente al Consonni dal presidente della Vigor, il Pessina, stremato dal compagno che sembra voler fare di testa sua e ribaltare gli ordini di scuderia, in un momento in cui nessuno lo vede lo butta a terra. Le conseguenze per il Consonni saranno un severo colpo al capo contro un sasso, e il manicomio.

Il testo e la lettura soffrono e vincono della stessa qualità: la costanza, la tensione prolungata. Una tensione che vive di escursioni abbastanza tenui dentro un paesaggio ossessivamente descritto in soggettiva (è sempre il lago che sale e scende, sono sempre i muri delle case che voltano a destra o a sinistra, sempre i rami e le frasche ai bordi a solleticare o frustare i corpi, sempre la strada che scorre via, o rallenta, o precipita, o colpisce).

I gesti e i particolari anatomici ritornano e risuonano raddoppiati, come doppia è la fatica dei due uomini, doppiamente percorsa è la strada e doppi sono rifornimenti o scambi; ma doppia e speculare è anche la conformazione del corpo umano, le scapole, le spalle, i polpacci… E la fatica, che sempre sembra essere giunta a un vertice, e non vi risiede mai davvero, perché un nuovo tratto di strada è sempre davanti, più duro del precedente, o più ardito, come le precipitose discese e, nella fattispecie, fatali.

Così Gifuni, giocando nei brevi volumi spaziali concessi dalla lettura scenica, tra sgabello e copione, si alza in piedi, si aggrappa al leggio, si spertica sulla stecca poggiapiedi e soprattutto carica di tutta la forza di un accento grettamente e pesantemente locale la lettura.
Ma è una cadenza studiata, greve perché popolare, non provocatoria, che dà spessore, luce realistica, personalità chiara ai due protagonisti, riportando tangibili le distanze di un tracciato di gara conquistabile a carissimo prezzo, di un paesaggio che oggi non ritroveremmo più, su cui domina incontrastata e onnipresente la polvere, e incombe oscuro il lago.

Come il testo, si diceva, la lettura: se in Pasolini, che abbiamo deciso di tirare a farci da pietra di paragone, il termine, la metafora, la figura, il paragone sono perfetti, oggettivi quasi, come stampi della cosa in sé, e irradiano una luce improvvisa di lampo, ne “Il Dio di Roserio” essi non di rado sono appena fuori fuoco, impercettibilmente prolissi, e la luce non procede per squarci di verità ma per lunghi fasci, paralleli alle strade e piegati nelle curve; se in Pasolini attorno alla lingua si fa un silenzio quasi religioso, attorno a questo Testori la lingua ha bisogno di sé stessa, della ripetizione di frasi e situazioni, richiede che non vi sia silenzio ma che si continui, a volte strenuamente, a raccontare.

Questa tensione – che nel racconto si mostra appunto come reiterazione di formule e di situazioni narrative (come quella delle “mutandine” che hanno più volte bisogno di essere aggiustate dai corridori), e che riserva di contro la grande difficoltà di trovare respiro, di riposare almeno un po’ – costituisce la necessità e l’unica piccola pecca della lettura: un persistente massimo di energia senza variazioni, se non minime, che se carica lo spettatore di tutta la fatica propriamente ciclistica di una corsa, e se aderisce alla realtà poiché lo sforzo è realmente prolungato in una corsa, come pure le ripetizioni dei gesti, rischia però di lasciare inevitabilmente qualche lacuna di concentrazione a chi assiste.

IL DIO DI ROSERIO. Studio sul primo capitolo
di Giovanni Testori
con Fabrizio Gifuni
in collaborazione con Solares Fondazione delle Arti

durata: 60’
applausi del pubblico: 4’

Visto a Roma, Teatro Vascello, il 10 marzo 2017

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