“Il grande vuoto” chiude la trilogia di Fabiana Iacozzilli

Il grande vuoto (ph: Francesco Bondi)
Il grande vuoto (ph: Francesco Bondi)

Il debutto al Teatro Vascello per Romaeuropa Festival

Mentre queste righe venivano abbozzate si preparava l’ultima replica del debutto a Romaeuropa Festival di “Il grande vuoto”, terzo capitolo della “Trilogia del vento” di Fabiana Iacozzilli, preceduto dalla rimessa in scena dei primi due capitoli, “La classe” e “Una cosa enorme“, a costruire una piccola, intensa personale. Sono dunque righe scritte di getto.
A essere completamente sinceri, non sono righe scritte di getto, sono anzi il risultato di una settimana in cui lo spettacolo visto, e con esso le parole che durante e dopo gli hanno fatto corteggio, hanno continuato a orbitare nei pensieri, ad accompagnarli. Eppure a un’artista che, come Iacozzilli, ha segnato – per chi scrive – alcune delle più intense esperienze di spettatore vissute negli ultimi anni, si ha l’impressione di dovere qualcosa di più di una precisa restituzione analitica, cioè lo sforzo di far combaciare quell’analisi con la ricezione, come dire?, del cuore. Di evitare la letteratura intesa come artificio (tecnico, specialistico) quanto più possibile, di scrivere qualcosa come una lettera intima.

Un punto di partenza potrebbe essere questo: anche chi, come il sottoscritto, tenta costantemente di tenersi lontano dalla seduzione delle formule emotive, semplificatorie, non può evitare di chiedersi se esista e che caratteristiche abbia uno “spettacolo perfetto”. Se decidiamo di ricavarci una parentesi confortevole di purparlé e di tentare di rispondere a quella seduzione, la risposta potrebbe essere che un ipotetico “spettacolo perfetto” è un lavoro il quale, dal punto di vista formale, risponde a tutte le domande che pone, e che da quello del contenuto, invece, esista per porne di ancora sepolte.

“Una cosa enorme”, nella trilogia di Iacozzilli, è quello che più di tutti i tre lavori si avvicina a tali caratteristiche: il silenzio quasi completo copre l’intero spettacolo, rotto solamente dalle interviste audio e dai rumori della stanza entro e attorno a cui si svolge il dramma della madre/figlia. Tale silenzio della voce articolata in parola, nutrito però da altre voci che costituiscono l’arma più affilata di Fabiana Iacozzilli, ossia la capacità di far parlare gli oggetti – letteralmente, microfonandoli –, tale silenzio serve, fra le altre cose, a caricare precisamente una battuta, la battuta, quella che oltre a essere dal punto di vista formale un centro gravitazionale poderoso, carica quelle minime parole di domanda di contenuto enorme, senza risposta – la domanda sul senso della procreazione e sullo sfrangiarsi dei confini tra amore e dovere di assistenza.
Una domanda che oltrepassa, travolge, il significato della parola pronunciata, come se in quel fiato di voce, qualunque verbo arrivi a timbrare, sia contenuto e sfogato il senso dell’intero dramma.

Ma d’altra parte, di Fabiana Iacozzilli non si può non riconoscere questo, la dura base morale, filosofica su cui radica i suoi spettacoli. Le fondamenta, si direbbe oggettive, del pensiero sono la condizione ineliminabile sulla quale si fonda ogni suo lavoro, sia pure un “semplice” laboratorio teatrale, come quello che intesseva per gli alunni della scuola Asinitas.
Non si tratta mai, per quanto la riguarda, di lavori che partano banalmente dal fascino di un’immagine o, meno banalmente, da un discorso interno alla drammaturgia. Essi non danno mai l’impressione di essere costruiti poco per volta, per illuminazioni successive: sembrano invece l’esito, l’esplosione scenica di un pensiero duro.

Anche “Il grande vuoto” lo è, e il pensiero è quello che molti di noi si sono ritrovati, si ritrovano pulsante nelle proprie esistenze: la morte di una persona sulla quale la nostra vita si è avviticchiata al punto da esserne apparentemente inscindibile, e la perdita della capacità di stare nella realtà nella maniera condivisa dai più, col cervello sopra le cose che succedono – più o meno, insomma, lucidi.
È la storia, per farla breve, di una vecchia coppia in cui il marito (Ermanno De Biagi) viene meno, e del lento dissolversi della ragione della moglie (Giusi Merli). Lei è un’ex artista di teatro, ancora un po’ frivola, lui un pasticcione amabile.

La prima di quelle che potremmo definire le tre parti del lavoro racconta il ménage dei due, all’uscita da un centro commerciale; la seconda vede in scena prima i due figli (Francesca Farcomeni e Piero Lanzellotti) con la madre superstite, in un pranzo che improvvisamente affonda la propria prospettiva in un tempo più lungo, più sfumato, di mesi, slabbrato, a ritrarre, minuto dopo minuto, un progressivo sprofondamento della donna nella demenza e l’arrivo della badante (l’esordiente Mona Abokhatwa).
La terza parte, agganciata alla precedente da una sequenza di videoproiezioni in cui la madre vaga per l’appartamento, ostaggio dei suoi non-tempi, delle sue non-azioni, ripresa da videocamere di sicurezza di quelle che “si usano per i cani”, ci porta per mano proprio in quel brandello di mondo. Siamo in tutto ciò che sopravvive nella mente sperduta della protagonista, un superstite monologo dal “Re Lear”, recitato in una lontana, memorabile tournée: è quanto la donna, smarrito il senso di sé e la capacità di riconoscere i suoi cari, è riuscita a preservare della realtà, ed è il luogo nel quale i figli e la badante decidono di trasferirsi.

Come si vede, la solidità del pensiero di Iacozzilli non viene qui meno: il vuoto (della mancanza) inevitabilmente chiama a sé un altro vuoto (quello della mente), a cui gli affetti più vicini, se non vogliono arrendersi allo smarrimento progressivo e irrecuperabile di quell’affetto, non hanno che una, utopica, soluzione: rintracciare quel minimo fazzoletto di terra sul quale è ancora possibile posare i piedi e saltarci sopra, prima che sprofondi. Devono insomma rinunciare al tentativo, che pure la figlia scompostamente mette in atto nei primi momenti, di recuperare il maltolto, si direbbe, di strappare all’oblio quanto già è stato irrimediabilmente catturato, di chinare umilmente il capo ed entrare per un uscio sempre più piccino nel minuscolo andito di ciò che è rimasto. È un ottimismo paradossale, che a stento maschera la disperazione del pensiero dell’artista romana. Né basta il riferimento al mondo del teatro, alla finzione come forse salvifico altro-mondo in cui stare, nemmeno se si volesse (ma gli elementi non sono sufficienti) immaginare in “Il grande vuoto” un inno alla memoria, nei suoi molteplici significati.
Pure, si tratta di un tentativo, questo del bel finale, che se a livello di “contenuto” mantiene inalterata la grande domanda sul dolore della perdita (delle perdite), in qualche modo evoca a livello formale, cioè degli strumenti utilizzati, un’apertura che, ai tempi di “Una cosa enorme”, sarebbe stata impensabile.

E diverse altre sono le aperture. Sono piccoli dettagli, in alcuni casi: l’insistenza nel mantenere la “firma” della scenografia componibile dei primi due lavori, i mobili montati su carrelli mossi dagli attori, inessenziale in questo caso, addirittura evidenziati da una verniciatura arancione. O lo scendere a patti con una certa amichevole grandeur, come la (minuscola) macchina in scena nel primo atto o le videoproiezioni di cui si parlava, che sono comunque uno scivolamento rispetto alla severità che aveva caratterizzato l’impaginazione dei lavori precedenti. La scelta delle videoproiezioni può avere un suo riscontro nella pratica di portare in scena lacerti documentari presenti nei primi due capitoli (ma lì erano audio-interviste low-fi, qui è docufiction in cui l’attrice si aggira per le stanze di un’abitazione), e non le si può negare uno scopo drammaturgico più sottile, perché, come un elastico, tende il linguaggio sulla verità più cruda (la donna in video si siede sul letto, scopre il seno, resta immobile), prima di scagliarlo verso le lande oniriche del finale, quello costruito attorno a Lear, con corone e mantelli, tempeste di pioggia dorata.

Ancora: se poco sopra si diceva della straordinaria abilità di Iacozzilli di far parlare gli oggetti, a quest’arma sembra essere accordata minore fiducia in “Il grande vuoto”. Impone la sua presenza invece la parola umana che sbozza, a brevi segni pittorici (come nella prima scena dei due vecchi amanti, deliziosamente ricamata sulla pagina ma anche frettolosamente resa sul palco), la parola che si fa campo di battaglia della lotta umana (come nella seconda scena) e persino la parola che manca, al cui vuoto la figlia tenta scompostamente di fare barriera.

Molte di queste scelte, effetto del dipanarsi di un percorso di maturazione creativa, a un orecchio malevolo potrebbero suonare come un tentativo di limare la dura radicalità dei lavori precedenti.
La maschera di ottimismo del finale nasconde, come si è detto, l’impossibilità di accettare la tragedia del “venir meno”, eppure il trionfo della vecchia attrice sotto una pioggia d’oro riempie e rischia di consolare gli occhi, umettandoli di lagrime consolatorie (il teatro ci salva!); espulsione del silenzio dal palco, a favore di una parola che, oltretutto, riesce pure a far sorridere nel dramma, potrebbe essere il tentativo di tranquillizzare anche chi i silenzi non sa leggerli o patirli; la sostituzione della tranche audio-documentaristica con il video ricostruito spiana le grinze di un ascolto gracchiante e richiama all’attenti una ricezione magari disattenta; persino la durata, qui spinta fino all’ora e mezza dove gli altri lavori a stento coprivano i sessanta minuti, riesce a ricollocare il lavoro nei canoni più riconoscibili di un lavoro che “fa (pienamente) serata”.

Naturalmente tutte queste non sono che capricciose illazioni, odiose anche a chi le fa. Anzi, non sono nemmeno illazioni, sono provocazioni: le provocazioni di uno che non può non riconoscere da un lato la parabola della costruzione drammaturgica, più complessa, più ramificata e forse per questo più imperfetta del terzo dei tre lavori, né obiettare a turno ora sul riuso delle “firme” riconoscibili fin nei capitoli precedenti, ora sui loro superamenti o sostituzioni; uno che d’altro canto non può che gioire per la sala sempre piena. Ma che per gli occhi lucidi delle marionette, per un corpo di vecchio in pannolone, per il rumore dei cereali versati e del vento in un deserto solo immaginato, cova nel cuore una corrotta nostalgia – e un inconfessabile senso di tradimento.

IL GRANDE VUOTO
Il grande vuoto
uno spettacolo di Fabiana Iacozzilli
dramaturg Linda Dalisi
con Ermanno De Biagi, Francesca Farcomeni, Piero Lanzellotti, Giusi Merli e con Mona Abokhatwa per la prima volta in scena
progettazione e realizzazione scene Paola Villani
luci Raffaella Vitiello
musiche originali Tommy Grieco
suono Hubert Westkemper
video Lorenzo Letina
produzione Cranpi, La Fabbrica dell’Attore -Teatro Vascello Centro di Produzione Teatrale, La Corte Ospitale, in corealizzazione con Romaeuropa Festival
CON il CONTRIBUTO di MiC – Ministero della Cultura
CON il SOSTEGNO di Accademia Perduta / Romagna Teatri, Carrozzerie n.o.t, Fivizzano 27, Residenza della Bassa Sabina, Teatro Biblioteca Quarticciol

durata: 1h 30′
applausi del pubblico: 3′

Visto a Roma, Teatro Vascello – Romaeuropa Festival, il 17 novembre 2023
Prima nazionale

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