Mefistofele contro Dio, in un dialogo teoricamente contrapposto ma necessariamente complice, sono e restano un riferimento culturale inevitabile. O forse no. Forse non nel caso di un testo che ha come protagonista un evento innaturale e straziante, inedito. Forse allora basterebbe concentrarsi su questo conflitto, senza richiamare lazzi farseschi di altre epoche.
È un peccato, quindi, che per “Il Pantano” – diretto da Renato Sarti e scritto da Domenico Pugliares, già autore di produzioni del Teatro della Cooperativa, che ha debuttato in prima nazionale al Piccolo Teatro Grassi di Milano – a spingere la vicenda intervengano così, in combutta, e chissà perché vestiti da Teletubbies, Dio e il Diavolo, rispettivamente Gianfranco Berardi e Daniele Timpano, comunque bravissimi ed efficaci nei rispettivi ruoli.
Eppure la vicenda dovrebbe concentrarsi sul conflitto della protagonista, interpretata da Cecilia Vecchio, madre segnata dalla colpa di aver assistito al suicidio della figlia senza muovere un dito.
Sarà l’illogicità o l’innaturalità di questa condizione ad aver suggerito a Renato Sarti e all’autore del testo un adattamento che richiama il teatro dell’assurdo, del paradosso esagerato, della caricatura certamente.
Eppure, vien da chiedersi con un certo rammarico, come la situazione di un genitore che perde il proprio figlio e l’insostenibile follia che ne deriva (o che la causa), si sarebbero potute approfondire diversamente, in un modo più intimo e meno urlato, magari. Come riesce spesso a fare (bene) quel teatro contemporaneo che unisce diversi linguaggi e non di rado riesce a trovare nuove e diverse parole nel movimento del corpo.
“Il Pantano”, che richiama subito alla mente un acquitrino fangoso, è l’impasse, quell’impiccio in cui si trova la madre davanti al giudizio incarnato da Dio e dal Diavolo, giudici in un processo che è prima di tutto psicologico.
Dello stagno, invece, dello sporco, non c’è niente sul palco: la scenografia è occupata esclusivamente da una giostra rotante e da due altalene, come in un qualsiasi giardinetto di periferia, ma senza bambini.
Al loro posto rimane la donna, nel primo atto immobile e comunque sempre passiva, assente, indolente, quasi recidiva, mentre a muovere il processo, in tre atti, sono le due presenze.
Nell’evoluzione della vicenda manca, o forse non emerge, il passaggio dal limbo alla soluzione, ma tutto è affidato all’argomentazione alternata fra le parti, senza arrivare ad un’assoluzione o a una condanna.
Nemmeno questa sospensione, tuttavia, permette allo spettatore di prendere una posizione, di partecipare al processo, o semplicemente di dire la sua, come al contrario accade veramente, quasi quotidianamente, nei confronti dei fatti di cronaca che si ripetono e ritornano, altrattanto gravi ed efferati.
E allora, vien da domandarsi, cosa rimane dalla visione pura? Che senso ha un teatro che usa il reale senza arrivare a toccarlo davvero fino in fondo?
Non manca, in questo lavoro, l’attenzione degli attori, la loro cura, la coesione sul palco. Ma questi elementi non bastano a toccare lo spettatore in profondità; così si rimane scalfiti solo in superficie dalla recitazione, dalla presenza attorale, dalla caricatura, ma non si è portati a un coinvolgimento critico, che non significa censorio, ma piuttosto rimanda ad un’attività analitica, più o meno sensibile e razionale, richiesta a qualsiasi spettatore davanti a uno spettacolo che non voglia porsi come visione di puro intrattenimento. E sicuramente, questo particolare Pantano, non lo è.
IL PANTANO
regia e consulenza alla drammaturgia: Renato Sarti
testo: Domenico Pugliares
con: Gianfranco Berardi, Daniele Timpano e Cecilia Vecchio
produzione: Teatro della Cooperativa
con il sostegno di: Regione Lombardia – progetto NEXT
durata: 1h 30′
applausi del pubblico: 2′ 15”
Visto a Milano, Piccolo Teatro Grassi, il 9 gennaio 2014
Prima nazionale