Il talento di vivere: Malcovati, Visconti e l’enigma dell’esistenza di Čechov

Photo: Stefania Varca
Photo: Stefania Varca

Fine conoscitore della letteratura russa, il professor Fausto Malcovati ha intitolato “Il talento di vivere” la propria riduzione teatrale di “Una storia noiosa”, racconto che Anton Čechov scrisse nel 1889.

Al centro della messa in scena di Fabrizio Visconti, allo Spazio Tertulliano di Milano fino al 2 febbraio, c’è il medico e docente universitario Nicola Stiepanovic (Massimo Loreto), un uomo anziano chiamato al bilancio di una vita all’apparenza di successo, in realtà priva di mordente. Una luce tenue gli giunge dalla giovane Katja (Camilla Violante Scheller), orfana, attrice mancata, che lui ha allevato come una figlia.

Nessun volo pindarico nella regia, arguta ma sobria come l’interno domestico in cui è ambientata la vicenda: un tavolo, tre sedie, una porta sullo sfondo, una finestra di lato da cui filtrano le luci che scandiscono il tempo della giornata fino a notte fonda. Sembra di entrare in un quadro di Vermeer, tra misteri e zone d’ombra. Luci introspettive fotografano gli stati d’animo dei protagonisti.

Il tempo non dà scampo. Un uomo si avvicina al capolinea della propria vita. Con delicatezza, i monologhi di Nicola Stiepanovic esprimono l’inadeguatezza che si fa spazio tra angosce, malattia e solitudine.
Una sublime reticenza pervade la scena. L’insonnia di Nicola è forse il tentativo inconscio, disperato, di rubare attimi a una vita sfuggente.
Il tempo che passa è misurato da un battito intermittente d’orologio, che a volte si dilata nei rintocchi di un pendolo, altre volte si restringe, ossessivo, come il tic-tac di un metronomo o la tachicardia di un cuore nella notte.

Nicola e Katja sono due solitudini. Nella vita di Nicola c’è una famiglia, ma in scena non ve n’è traccia. Neanche i successi professionali inorgogliscono il vecchio professore, nessuno dei suoi ex allievi ha lasciato impronte che facciano da scia alla sua eredità scientifica e spirituale. Emerge un senso d’universale vacuità.

A sua volta Katja deve fare i conti con la mediocrità di una vita senza certezze né vere illusioni. In ripiegamento su sé stessa, pervasa dal male di non sapere più come e perché vivere, essa è anche consapevole di non avere alcun talento artistico. Tutto ciò che le resta è l’affetto per Nicola, un misto fra tenerezza filiale e quella dedizione pudica che lega un allievo al proprio mentore. Avvertiamo echi di un legame più intimo, forse il rimpianto di un sentimento che le coincidenze e l’età non hanno reso più profondo.
C’è una semplicità nell’abbigliamento dimesso di Katja, che trapela anche dalla sua bellezza sfiorita. C’è un’aria umile e sofferta anche nell’eleganza lisa del professore, occhiali dorati, gilet e orologio nel taschino. Una mesta delicatezza unisce gli sguardi dei protagonisti.

Scenicamente, basta spostare il tavolo, e dalla casa dell’uomo ci troviamo in quella della giovane. Il cambio scena tuttavia non dirada la solitudine e quel senso di schiacciamento, che tuttavia non diventa soffocamento.
Quel po’ di riparo è nella laconicità dei dialoghi mai affettati, nei sorrisi teneri, nelle occhiate solidali, nei silenzi interrotti da parole che arrivano dritte all’anima. La fuga è nella dimensione rara del sogno, anch’esso però fragile, sempre sul punto di ribaltarsi in incubo.
“Il talento di vivere” è la fatica di misurarsi con la grossolanità degli altri, la capacità di valutare la vita non dalle azioni ma dai desideri, il titanismo di chi prova a fronteggiare il senso d’inanità connaturato all’esistenza.

Nel finale i colori si fanno più cupi, le atmosfere più fredde. La pittura d’interni stile Vermeer regredisce verso le dissolvenze di Hopper. Anche gli abiti di scena si appesantiscono, per arginare l’algore imminente. Le musiche (Vivaldi, Listz, Čajkovskij, “Vanishing Act” di Lou Reed) creano un soffice contrappunto. E c’è in scena quella sedia in più.
Bravo il regista a percorrere i labirinti del testo, a denudare la vita come la concepiva Čechov: con i suoi difetti, le debolezze, le piccole cose goffe; svelando la miseria dello spettacolo umano anche quando fa sorridere.
Gli attori fanno proprie le tenui sfumature di sogno, sentimento e pensosa serietà della riduzione drammaturgica di Malcovati, densa, mai greve. Implacabile Loreto nello scoperchiare il dolore nascosto nelle cose all’apparenza più felici. Con Camilla Violante Scheller esprime la forza cieca, ineluttabile, che costringe a vivere ancora la vita e a subirla nel suo tragico quotidiano.

IL TALENTO DI VIVERE
dal racconto di Anton Čechov “Una storia noiosa”
riduzione teatrale Fausto Malcovati
regia Fabrizio Visconti
con Massimo Loreto e Camilla Violante Scheller
produzione Spazio Tertulliano

durata: 1h 10’
applausi del pubblico: 3’

Visto a Milano, Spazio Tertulliano, il 18 gennaio 2020

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