Il teatro nel tempo del silenzio. Affinché non diventi oblio

Guernica di Pablo Picasso
Guernica di Pablo Picasso

Dal 26 febbraio? O dal 3 marzo? Oppure era dal 13? No, qui in Francia è di certo dal 16… Ma chi, qui in Francia come altrove in Europa, è un immigrato italiano europeo, questo silenzio lo sente con qualche giorno di ritardo. Ma da quanto dura, allora, questo silenzio? Da quando è stato nominato da Frosini e Timpano su Minima&Moralia? Da quando tante voci di attrici e attori, sul web, hanno cercato di combatterlo sul web? O per alcuni il silenzio è iniziato prima, molto prima? Insomma, da quanto tempo dura il silenzio del teatro?

Quel che è certo è che il silenzio del Presidente del Consiglio o dei politici italiani che costantemente dimenticano di proporre piani straordinari, proposte innovative e soluzioni per aiutare lo spettacolo dal vivo dura da prima della pandemia. Ma come si sopravvive al silenzio del teatro, ora? Come potrà il teatro tornare a prendere voce, domani?

Da poco abbiamo vissuto un 25 aprile che non avremmo mai immaginato: nell’illibertà di uno Stato d’eccezione inevitabile, certo difficilmente tollerabile, tuttavia indispensabile, poiché obbliga tutti noi a prendere coscienza che la nostra vita, la nuda vita di tutti, ha più valore di ogni forma di produzione. Anche di quella artistica. In questo nostro 25 aprile, tanto duro da sopportare ma proprio per questo forse più intenso, Ascanio Celestini e Giorgio Barberio Corsetti hanno provato, tra gli altri, a misurare questo silenzio teatrale, proponendo il non-spettacolo di un loro dialogo in streaming.
Il primo elemento che mette in luce l’attore ed autore romano è quanto lontana ma anche stranamente simile sia questa nostra “reclusione”, “psicologica, prima che fisica” dice Celestini, a quella da chi ha vissuto la guerra. Ricorda come per la partigiana Carla Capponi la Liberazione sia stata, prima di tutto, poter correre per strada ed abbracciarsi.
Complesso festeggiare la Liberazione quando questa gioia ci è negata.
Il discorso si concentra poi rapidamente sul teatro, sul silenzio che ora vive il teatro. Si parla di alternativa, di “fase 2”, di quali possibili riaperture, di riappropriazione della libertà di fare teatro, di come e di quando. A questo proposito Ascanio Celestini afferma: “Io, oggi, un’alternativa non la voglio neanche pensare. Non voglio pensare al teatro in streaming […] È fondamentale oggi pensare ad un’alternativa nell’emergenza. […] Pensare che il lavoro di un attore, di un danzatore, di un musicista sia la stessa cosa quando viene ripresa dalla telecamera è contro ogni regola del linguaggio. […]”. E Barberio-Corsetti aggiunge: “Il teatro ha bisogno di una presenza, sia del performer, di chi vive l’esperienza artistica ma anche di chi la vive con lui. […] C’è sempre una collettività nel teatro, ed è quella la sua forza”.

Certo il teatro è un medium malleabile, fluido, che sa inglobare e sfruttare ogni altro medium e le sue potenzialità, sa farsi radio-dramma, teatro in televisione, può appropriarsi dello streaming, del web, di qualunque forma di registrazione audiovisiva per continuare, ad onta di tutto, ad esistere. Quello che una volta si chiamava lo specifico teatrale, però, è composto della compresenza attiva, nel presente, di chi li spettacolo lo interpreta o lo mostra o lo crea e del pubblico.
Senza questi due poli, che formano una collettività effimera, l’evento teatrale non è possibile nella sua forma più semplice, primordiale, mai pura. Per questo motivo, probabilmente, Celestini pone l’accento sul fatto, evidente per chi il teatro lo studia o cerca di insegnarlo, che il teatro non è solo lo spettacolo, ma tutto quello che c’è intorno, prima e dopo. Questa espressione umana complessa comincia infatti con la scelta individuale dello spettatore di interrompere il flusso della sua quotidianità per andare ad assistere allo spettacolo, all’evento, alla performance, e passa anche per il lavoro dei tecnici, delle maestranze, di chi il teatro lo dirige, lo programma, delle maschere che permettono, concretamente, all’evento di avere luogo. Una comunità di lavoratori e di spettatori che si riunisce per una performance effimera, irriducibile ad altra fruizione se non dal vivo, benché sempre aperta ad ogni forma di riproducibilità, ibridazione, trasformazione. Una comunità della quale fanno parte anche coloro che dopo, nero su bianco, debbono o vogliono scrivere di quell’evento, per capirlo, su un quotidiano nazionale, su una rivista, per un compito imposto da un professore, su un taccuino, su un messaggio alla fidanzata o all’amico per provare a descrivere e condividere con chi non c’era quell’evento effimero.

“Non c’è un’alternativa alla presenza fisica” afferma Celestini, per il quale si dovrebbe tornare a fare teatro “domani, oggi, ieri, se possibile”.
Su questo ironico e straniante paradosso di Celestini fermo la mia attenzione. Quest’uomo di teatro ci ha abituati ad attraversare il reale sezionandolo chirurgicamente con i più sottili strumenti della fantasia. Anche in questo caso il suo stile dà corpo alla sua riflessione, immaginando un drammaturgo-presidente che imponga per decreto la riapertura, ora, immediatamente, di tutti i teatri.
Come risponderemmo ad una tale ordinanza? Saremmo mai in grado di organizzare, in ogni suo aspetto, un’apertura emergenziale ma imprescindibile della maggior parte dei teatri su tutto il territorio?
Questa domanda, che è irreale, obbliga tutti noi, a qualunque latitudine, a fare i conti col reale, col presente del teatro nelle sue forme sfaccettate e contraddittorie, con le sue gabbie e i suoi spazi di inevitabile libertà – e quindi di rischio.

“Questa situazione, oggi, deve farci aprire gli occhi”, ingiunge Celestini. Aprire gli occhi sull’insopportabilità della condizione precaria di chi lavora nel teatro. “Noi, nel nostro settore, dobbiamo ricordarci che questa precarietà non è sostenibile in una situazione di normalità, tanto più in una situazione come questa. Dobbiamo uscirne, da questa situazione, dobbiamo uscirne senza cambiare il nostro lavoro”.

Mi risuona una vecchia domanda: da quando è iniziato il silenzio del teatro? Ricordo che quando scelsi di emigrare in Francia, quasi per gioco o per sfida, subito a Parigi trovai grande clamore teatrale, una pluralità di voci quasi sconosciute. Ma allora, cinque o sei anni fa, in Italia c’era, anche, silenzio? Non c’era, ieri, silenzio teatrale anche in Francia? Ed in Francia, oggi, non c’è comunque un silenzio teatrale assordante ma amplificato dai doverosi tentativi di molti di offrire archivi video, programmazioni alternative o dalla tenace, per non dire stolida, volontà di Olivier Py di mantenere al fresco i prodotti già sistemati sui rayons del supermarché Festival d’Avignon? Peccato, impossibile garantire l’accesso al plus grand nombre a quelle “conserve culturali”. Anche qui lo Stato non le giudica beni di prima necessità.

E che silenzio sarà il mio, domani, quando sarò, probabilmente, obbligato a invitare dei ragazzi ad analizzare il teatro a partire da programmazioni interamente “in streaming”, invitando ad abbonarsi comunque alle stagioni di grandi e piccole strutture per finanziare, malgré tout, la creazione dal vivo? Aggiungendo magari una postilla ad ogni inizio di corso: “Attenzione: questo che cerchiamo di studiare è un fatto teatrale, ma non è teatro”.
Certo, io lavoro anche con e all’interno degli archivi di teatro della Bibliothèque nationale de France, studio la Storia del teatro, dovrei essere abituato ad avere a che fare con le tracce residuali dell’evento effimero che si è svolto nel passato. Ma il passato di quelle tracce può essere compreso solo se lo si analizza nei molteplici contesti nei quali quel dato evento si inseriva, in quanto quell’evento teatrale si configura come una tra le molte attività umane che possiamo cercare di recuperare dal passato, come un “modo d’operare” degli uomini nella realtà della Storia. In tal senso, studieremo di certo e produrremo, continueremo a produrre, spettacolo in questo nostro tempo del silenzio. Eppure, per ora, i prodotti che analizzeremo e, soprattutto, i processi produttivi e di ricezione che andremo a visionare, analizzare, scandagliare non saranno più come il teatro del “tempo di prima”.

“Lavoriamo come se i teatri dovessero riaprire domani. Lavoriamo nell’emergenza”. Ma l’emergenza, la precarietà, chiamiamola pure povertà materiale (mai intellettuale), non c’era già prima? È per questa ingiunzione, in fondo, che il dialogo tra Celestini e Barberio Corsetti mi pare ricco di spunti. In effetti, obbliga un po’ tutti noi a fare i conti con le nostre difficoltà e precarietà, a riconoscere nelle difficoltà degli altri – degli operai, degli insegnanti, degli infermieri, dei medici, dei teatranti – le nostre difficoltà, di noi che potremmo sempre, in potenza, diventare comunità teatrale. Soprattutto, ci invita a fare i conti con la gestione di questa emergenza con la consapevolezza che tutti abbiamo voce in capitolo, dal “primo attore” alla maschera, dal critico affermato allo spettatore occasionale. Essendo, in sovrappiù, costretti a riconoscere che se il cuore del teatro è lo spettacolo e ciò che lo rende tecnicamente possibile, esso risulta in ogni caso impossibile senza coloro che prendono parte al prima e al dopo dell’evento scenico. Inoltre, Celestini invita “a pensare ad una territorialità che ha altre motivazioni che quella dei soldi dati dalle regioni, ma perché la gente che fa teatro in quella regione è giusto che resti in quella regione”. Più che giusto, mi sembra imprescindibile che, almeno per ora, chi fa teatro in una data regione non si sposti da quella regione, ed è altresì giusto che continui ad esistere. Ma che fare, ora?

In questo momento, non possiamo che collettivamente, seppure chiusi ognuno nelle proprie case, pensare questo silenzio. Personalmente, mi vengono in mente due piste di riflessione, che trovano radici nella storia del teatro, ma che in alcun modo vogliono essere delle analisi storiche, ma solo degli spunti dai quali partire per provare a concepire il presente.

In primo luogo, ed anche questo trovo, in filigrana, nelle parole di Celestini, sarebbe importante provare ad appropriarsi, ma criticamente, del discorso bellicista sulla pandemia. Credo che questa retorica sia indegna nella bocca di molti politici. Quando questa retorica è pronunciata dai rappresentanti di Confindustria (o del “Medef” qui in Francia), credo nasconda solo la necessità di mandare avanti l’ennesima “guerra ai poveri”. Tuttavia, se sapessimo guardare a questo tempo del silenzio come all’ultimo tragico capitolo di una guerra sociale di lungo corso, allora, forse, potremmo, per esempio, guardare allo spirito col quale in Francia, dopo la Seconda guerra mondiale, si è costruita la décentralisation théâtrale. O, per essere più precisi, potremmo recuperare in parte la vulgata che ha raccontato quelle prime fasi “eroiche” di quel decentramento, durante le quali il teatro francese ha cercato di costruire, nello spirito delle leggi promulgate dal Conseil national de la Résistance, un teatro pubblico altro.
Certo, agli storici il compito, arduo, di decostruire quel processo di decentralizzazione, di analizzare le contraddizioni e incrociare le storie del teatro francese con quelle del teatro italiano, per verificare filologicamente percorsi, processi, influenze, ecc. Ma ai lavoratori del teatro, tutti, oggi, la possibilità di guardare e rileggere quei processi storici al fine di addestrarsi all’analisi delle contraddizioni dell’oggi, per ritrovare nelle ragioni delle utopie del passato i metodi per affrontare le necessità del presente.

Nella prospettiva di un decentramento obbligato, ma anche aperto e plurale, immediata mi viene in mente la voce di un “grande vecchio” del teatro francese, Roger Planchon.
Dopo aver cercato tra mille contraddizioni ed ambiguità di far vivere un grande teatro internazionale nella periferia operaia di Lione, ancora nel 2003 dichiarava che una vera democrazia deve abdicare una parte del suo potere agli artisti, ai creatori. Il potere ceduto agli artisti e senza alcuna volontà di intervenire sul discorso prodotto dai lavoratori della cultura, questo era secondo lui uno dei criteri coi quali le generazioni del futuro avrebbero giudicato il grado di democrazia dei governi del passato. In questo momento, tuttavia, noi sappiamo che non basta più dare “tutto il potere ai creatori” per far vivere il nostro teatro. Sappiamo che, mai come ora, abbiamo bisogno che questa ricostruzione diventi un processo ampio e plurale che permetta alla comunità teatrale tutta di prendere attivamente parte a questo processo, come suggerisce Celestini. In fondo, questo fu il grande spirito che mosse la décentralisation théâtrale; ma ora, per noi tutti, quella volontà di una costruzione di un teatro pubblico aperto ed inclusivo è una necessità, un obbligo imprescindibile per poter esistere in questa emergenza.

In secondo luogo, penso che si potrebbe anche – ma non è che un esempio tra molti altri – recuperare criticamente il senso profondo dell’operazione di decentramento teatrale avviata alla fine degli anni Sessanta in Italia. Penso soprattutto a Giuliano Scabia e al suo rapporto con lo Stabile di Torino, al tentativo di far nascere dalle periferie e per le periferie un teatro altro. Ripenso a questa esperienza poiché, paradossalmente, come dice Celestini, la necessità di combattere una guerra “pandemiologica” ci impone di costruire un “Teatro di Borgata Morena” per tutti, prendendo l’esempio della borgata nella quale vive Celestini. Un teatro per tutti, ma costruito, a fortiori, dai lavoratori e dal pubblico di Borgata Morena. Un teatro obbligato a lavorare nel e per il territorio, ma che sogni di essere, il prima possibile, internazionale, ma che adesso, intanto, esista.
Chissà, forse è questo un modo perché, domani, sia più difficile per tutti immaginare e lavorare per un pubblico del circuito di serie A, quello degli Stabili, ed uno di serie B, quello, per esempio, del “Teatro di Borgata Morena” – ma potrebbe essere quello del Teatro di Castelfranco Veneto, di Mulhouse, di Barriera di Milano…
Il Teatro della Tosse, per fare un altro esempio, già opera in questo senso e l’intervista di Mario Bianchi ad Amedeo Romeo mostra già le grandi potenzialità e le difficoltà da superare per un progetto del genere. Cosa vuol dire però, in questa emergenza, far partecipare in modo immediato la comunità teatrale tutta a questo processo di ricostruzione?

Riprendiamo ancora le parole di Simone Derai, della compagnia Anagoor (dopo che l’ottimo articolo di Carlo Lei le ha già analizzate in “L’essenziale negato“): “Serve sovvertire il rapporto tra teatro e università: aprirlo. Serve tanta più danza e canto. Non solo musica da ascolto, ma proprio pratica del canto corale polifonico. Serve che i cittadini si uniscano in coro a cantare, enormi cori cittadini. Serve che abbandoniamo l’abitudine delle sale utilizzate in modo convenzionale, serve che il teatro (edificio) si spalanchi e smetta di chiudersi in una forma: il teatro è l’arte più aperta di tutte, quella più elastica, ad essa non possono corrispondere strutture architettoniche e organizzative eccessivamente rigide” (Il Pickwick).

Tutto questo è vero, fondamentale, urgente. L’università deve aprirsi al teatro e, dal mio punto di vista, il teatro deve sapere darsi all’università e a tutte le comunità che compongono quella che Gramsci, reinventando Marx, chiamava società civile.
E c’è chi da anni, in modo straordinario e sempre inaspettato, fa proprio questo teatro polifonico e civile: il Teatro delle Albe di Ermanna Montanari e Marco Martinelli che dagli anni Ottanta non hanno mai smesso di rinnovare la loro “Primavera eretica”. Ripenso alle parole con le quali comincia il libro che hanno scritto, nel 2014, per commemorare i loro trent’anni di teatro: “Utile a chi [questo libro]? La risposta ai lettori, e in particolare a due categorie di questi: a chi ama la Storia del Teatro come un labirinto di segni dispersi nell’aria, e ai giovani teatranti, a chi, allegro ed eretico, continua sul legno di un palco o sul cemento di un qualsiasi spazio pubblico a sfidare il mondo”.
A cosa servono, perché sono utili e a chi le parole di tanti teatranti, di tanti appartenenti alla comunità del teatro che, in questo momento, più parlano e più restano muti?
A sfidare il silenzio, affinché la comunità del teatro tutta trovi la forza di sfidare il silenzio. Riappropriamoci ora, dunque, delle parole e delle esperienze di molti affinché delle alleanze insperate, dei dialoghi fino ad oggi non pensati possano nascere. Ché i teatranti possano sovvertire, ora, queste esperienze e queste parole, queste pratiche del passato e del presente, criticandole o facendole proprie, affinché mai gli orientamenti personali, le scelte di gruppo, le estetiche individuali siano sovvertite dalla necessità di inventare un teatro altro, più aperto, più giusto, più umano.

Nel solitario silenzio nel quale siamo costretti in quasi ogni parte d’Europa oggi, non riesco a non pensare a quello che Maurizio Bettini ci ha insegnato sulla natura del silenzio e dell’oblio nella cultura classica. Per questo antropologo, il silenzio, terribile arma di un Dio potente e terribile, Apollo, nonostante tutto fa parte della comunicazione, è un’interruzione crudele e brutale della comunicazione ma può essere riempita di senso, di significato, di suoni.
La negazione della comunicazione, invece, è per lui l’oblio. La dimenticanza, lo spesso oblio nel quale sono immersi i morti è per i Greci totale negazione di ogni forma di comunicazione.

Di certo noi siamo ora immersi nel silenzio del teatro, ma dobbiamo fare in modo che non diventi oblio. Per farlo abbiamo bisogno di investire ogni canale di comunicazione, di immaginare e di pensare azioni ora, concrete, come suggerito, tra gli altri, anche da Roberta Ferraresi nel corso della prima “Assemblea aperta dei teatri e della danza” in streaming il 27 aprile.
Dobbiamo, tuttavia, anche pensare ad un sistema nuovo, che ponga al centro del processo di produzione dell’evento scenico la comunità reale e potenziale del teatro. E tuttavia, questa comunità deve proiettarsi subito, urgentemente e in modo del tutto utopico, in una prospettiva internazionale, aperta. Saper essere, per “Stato d’eccezione”, locale e richiusa nel piccolo, ma per vocazione e per scelta globale ed aperta.

Al contempo, ripensare alle diverse precarietà che vivono il teatro deve essere un’occasione per ripensare l’organizzazione ma soprattutto il welfare dello spettacolo in una prospettiva europea. È possibile pensare ad un sistema di intermittance per i lavoratori dello spettacolo ma a livello europeo, che segua, ma migliorandolo, quel modello? È giusta o fallace questa prospettiva? Di cosa abbiamo bisogno per il teatro di oggi, di domani, cosa del passato dovremo recuperare, cosa distruggere? È ad un’utopia di questa portata che dobbiamo affidarci, uno “Stato di agitazione permanente” come quello reclamato da Lorenzo Donati su Altrevelocità, per “riabitare un mondo che non ci conosce ”.

Non facciamoci illusioni: il “mondo che verrà”, che stanno preparando, che sempre preparano e che da sempre accettiamo come fatale, sarà più spietato, più cattivo, più misero. Eppure, sono convinto che una lucida utopia, molto simile a quella di Benjamin, per il quale la Storia materialista deve redimere anche tutto il passato, sia necessaria. Eppure, sono convinto che la costruzione di questa chiara utopia debba redimere chi da sempre è escluso o è ai margini del circuito dello spettacolo. Eppure, sono convinto che solo il pensare a questa improbabile utopia permetterà al nostro silenzio di non farsi oblio. Apriamo gli occhi, affinché davvero il tempo del silenzio non diventi il tempo dell’oblio.

Post-scriptum: termino di scrivere queste righe, iniziate il 25 aprile, a pochi giorni da un Primo Maggio sous état de confinement, come si dice qui in Francia, letteralmente “in stato di confino”. Sarebbe bello scoprire che questa coincidenza non è casuale, che ha un qualche senso per le lotte di oggi, di domani.

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1 Comments

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  1. says: Spettatore insonne

    Immaginare, pensare, studiare alternative…. e intanto soffochiamo di Co2 in streaming.
    Una proposta semplice per dimostrare che il teatro, quello reale, è vivo? Scendete sotto casa, nei cortili, offrite il vostro teatro ai vicini, a chiunque abbia voglia di affacciarsi a finestre e balconi per trascorrere qualche quarto d’ora diverso.
    E poi ampliare il fenomeno e organizzare flash mob contemporanei e diffusi, nel rispetto delle restrizioni imposte dal Covid-19 ma con una forza espressiva che nessuno streaming potrà mai sostituire.
    Agite, caspita! Dove l’avete lasciata la creatività, la follia, dov’è rimasta l’arte di cui tanto vi riempite la bocca? O il problema è solo la pecunia? In tal caso, ce l’avete un cappello, giusto?