Il teatro, un Discorso di ossessioni. Intervista a Lorenzo Gleijeses

Lorenzo Gleijeses in Discorso Celeste (photo: fannyalexander.e-production.org)
Lorenzo Gleijeses in Discorso Celeste (photo: fannyalexander.e-production.org)
Lorenzo Gleijeses in Discorso Celeste (photo: fannyalexander.e-production.org)

«Beati coloro che, senza aver visto, hanno creduto»: è quanto scritto nel Vangelo secondo Giovanni. Credere in qualcosa che non si vede, una meta invisibile verso cui si corre, per cui si tendono i muscoli e spasimano il corpo e l’anima.

“Discorso Celeste” di Fanny & Alexander, che vede in scena Lorenzo Gleijeses e la voce di suo padre, Geppy Gleijeses, le musiche di Mirto Baliani e le immagini video di Zapruderfilmmakersgroup, è il terzo spettacolo in ordine cronologico del progetto “Discorsi”, che la compagnia porta avanti dal 2011.

Dedicato allo sport e alla religione, “Discorso celeste” (che sarà a Roma, all’Angelo Mai, il 10 e 11 aprile) mette in scena un dialogo surreale e impossibile tra figlio e padre, atleta e allenatore, giocatore e voce guida del gioco.
A partire da una logica da videogame, giocata sulla retorica del discorso sportivo e costruita su più livelli, Lorenzo Gleijeses incarna qui un avatar composito alle prese con una paradossale domanda sulla fede. Nell’epoca dell'”evaporazione del padre” è ancora possibile credere?
Sospeso tra mondi virtuali, Patrie perdute e Paradisi artificiali il figlio offre al padre la sua misteriosa risposta. Ne abbiamo parlato con lui.

Sport e religione, due mondi molto lontani nell’immaginario collettivo. Da dove è nata la suggestione per mettere questi due mondi in relazione?
L’idea iniziale di Chiara Lagani e Luigi De Angelis parte da David Foster Wallace con “Infinite Jest” e nel saggio “Il tennis come esperienza religiosa”. Lui parlava del legame tra sport e religione, nel senso che lo sportivo che fa agonismo è ciò che oggi è più vicino a quello che era il mistico un tempo. Che brucia le sue voglie e il proprio corpo per un fine che è al di là di sé stesso. Un Roger Federer o un Maradona è colui che ha il più alto rapporto con la perfezione rispetto a un essere umano normale. Questo è stato il trampolino da cui ci siamo lanciati…

Come hai lavorato sul corpo per questa messa in scena? Avete poi anche presentato di recente a Ravenna “Us” ispirato all’ormai celebre “Open”, la biografia di Agassi, in cui molto rilevante è la figura del padre. Come sono collegati questi lavori?
“Us” è nato come spettacolo dopo “Discorso celeste”. In “Us” la mia gestualità era più legata al tennis e avevo anche una racchetta come oggetto di scena. Qui il lavoro è più astratto. Abbiamo creato un alfabeto di gesti, azioni e tic osservando quelli degli sportivi, dal rovescio di Nadal al modo di palleggiare di Maradona fino il gancio di Cassuis Clay. Le indicazioni su che gesto fare vengono inviate dalla consolle da De Angelis in una partitura creata dal vivo. Non c’è più una racchetta, una palla o dei guantoni da box, ma rimane solo la gestualità. È una scrittura fisica.

Hai alle spalle esperienze teatrali molto diverse fra loro, che hanno toccato anche il teatro di tradizione. Com’è lavorare con Fanny & Alexander?
Fanny & Alexander hanno scelto me perché volevano sfruttare le varie strade e linguaggi che io ho percorso. Il fatto che avessi recitato nel teatro classico non era un vizio da arginare, ma un’altra arma del mio linguaggio da utilizzare. Nel tempo ho fatto un grande lavoro fisico. Ne “L’esausto” di Beckett, ad esempio, utilizzavo passi del brazilian jiu jitsu, e sono stato giocatore agonista di tennis. Ho avuto un rapporto di sfida nei confronti del mio corpo, per ottenere sempre di più, a volte esagerando anche negli allenamenti. Il lavoro fisico è la mia ossessione.

Un’ossessione simile a quella degli sportivi agonisti che mirano alla perfezione a ogni costo…
La logica è simile, sì. Agassi in “Open” racconta come odi la fatica a cui si sottopone, che segna il suo corpo con tendiniti, fratture e dolore alla schiena, ma allo stesso tempo non può farne a meno. Io mi sento nella stessa condizione…

Intendi dire che odi il teatro?
In alcuni momenti lo odio… mi risulta insopportabile il carico di sforzo che ha il lavorare in teatro. Ma allo stesso tempo se non lo faccio non mi sento realizzato. È una dinamica distruttiva-costruttiva. La cosa che non ho più voglia di fare è di allenarmi così duramente, eppure non riesco a fare a meno di farlo, perché sarei ossessionato da pensieri negativi. È come avviene ai corridori, lo racconta Murakami ne “L’arte di correre”, per citare un altro libro. Penserei continuamente: perché sei qui fermo, quando dovresti essere ad esercitarti? Non posso farne a meno.

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