Il Terzo Reich di Romeo Castellucci: omologazione e dittatura delle parole

Il Terzo Reich © Lorenza Daverio
Il Terzo Reich © Lorenza Daverio

Il potere si esprime in una lingua pericolosa, raggelata e «impermeabile all’interrogazione» (Toni Morrison).
Il dubbio, espresso attraverso il punto interrogativo, è anticamera dell’apertura all’altro da sé che facilita lo scambio e la reciproca conoscenza. Lo evidenziava in “LTI, La lingua del Terzo Reich” (1947) il filologo ebreo tedesco Victor Klemperer, che negli anni delle persecuzioni antisemite denunciò la ripetuta manipolazione delle parole esercitata dal Nazionalsocialismo.
A Klemperer si è ispirato Romeo Castellucci, che ha inaugurato con l’installazione “Il Terzo Reich” il proprio quadriennio da Grand Invité alla Triennale di Milano, nell’ambito della rassegna FOG Performing Arts.

In una sala completamente buia, lo spettatore è sottoposto ad un’autentica grandine di parole, vomitate, proiettate, catapultate, esplose sulla seconda parete del palcoscenico.
Graffi, stridori, fruscii, ossessioni di stantuffi. Sconquassi di bombardamenti. Clangore e sferragliare di macchine metalliche in movimento.
Supportato anche per questo lavoro da Scott Gibbons ai suoni – che qui diventano fragori assordanti – Castellucci ci sottopone a un autentico raid di parole. Proiettate su un mega schermo, scritte luminose di varia lunghezza, in capitale romana, squarciano il buio con immagini ad alta frequenza che colpiscono lo spettatore. Il pubblico, sferzato da questo martellamento di nomi, diventa catatonico. Siamo assorbiti in un vortice d’apnea e di solitudine, esasperato dalla mascherina e dal distanziamento imposti dalle normative anti Covid.

A impreziosire il lavoro, la coreografia metallica, rigorosa nelle sue volute geometriche, di Gloria Dorliguzzo.

È una lingua che non ha nulla d’innovativo, quella scelta da Castellucci per questa performance. Non ci sono “forestierismi”, quindi nessun termine che non fosse attestato negli anni in cui fascismo e nazionalsocialismo imperversavano in Europa: l’autarchia era innanzitutto linguistica, e impediva che qualunque vocabolo straniero penetrasse nei nostri dizionari. Qui la parola perde colori ed emozioni, diventa ritmo frenetico, compulsione nevrotica, stile dogmatico e perentorio. Il ritmo è ossessione che toglie il respiro, buca la retina, viola i timpani, trapana il cervello. Non resta che assumere una posizione difensiva, fuggire, dormire. Oppure assorbire, senza opporre resistenza.

Per citare Hegel, quest’installazione è «la notte in cui tutte le vacche sono nere». La sottocultura della retorica parolaia resetta ogni percezione attendibile della realtà. Lo spirito è svilito.
Proprio di questa pletora informativa si nutre il potere, che ci vuole sottomessi e poveri di spirito. All’epoca era il nazismo, adesso potrebbe essere quell’informazione televisiva o web dove una notizia vale l’altra. E anche tra chi blatera, uno vale uno. Non siamo più capaci di spazi vuoti, di quei silenzi che permettono al pensiero e alla riflessione di sedimentarsi.
Le parole a velocità indiavolata, nel culto dell’azione violenta ed esasperata, sono miasmi mefistofelici. Ci impongono la sottocultura dello sguardo superficiale: “La pausa, cioè l’assenza delle parole – si legge nella presentazione dello spettacolo – diventa il campo di battaglia per l’aggressione militare delle parole, e i nomi del vocabolario così proiettati sono le bandiere piantate in una terra di conquista”.

«Il nazismo – scriveva Klemperer – s’insinuava nella carne e nel sangue della folla attraverso le singole parole, le locuzioni, la forma delle frasi ripetute milioni di volte, imposte a forza alla massa e da questa accettate meccanicamente e inconsciamente […] Ma la lingua non si limita a creare e pensare per me, dirige anche il mio sentire, indirizza tutto il mio essere spirituale quanto più naturalmente, più inconsciamente mi abbandono a lei. E se la lingua colta è formata di elementi tossici o è stata resa portatrice di tali elementi? Le parole possono essere come minime dosi di arsenico: ingerite senza saperlo sembrano non avere alcun effetto, ma dopo qualche tempo ecco rivelarsi l’effetto tossico».

La lingua delle dittature è pericolosa perché limitata, meccanica, pervasiva, annichilente. L’installazione di Castellucci diventa una sorta d’esperimento sociale: per testare se siamo vaccinati alla sciatteria dell’omologazione e a un totalitarismo ancora più pericoloso perché sotterraneo, modellato sull’impoverimento linguistico.
Il 15 e 16 giugno (ore 20.30 e 22) al Teatro Comandini di Cesena.

Il Terzo Reich
installazione: Romeo Castellucci
suoni: Scott Gibbons
coreografia e interpretazione del prologo: Gloria Dorliguzzo
produzione: Societas

durata: 50’
L’installazione è sconsigliata a minori di 13 anni

Visto a Milano, Triennale Teatro, l’11 giugno 2021
FOG, Performing Arts Festival

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