Il Troll. Mamma mia dammi cento lire, che in America voglio andar…

Fortezze marittime Maunsell
Le Fortezze marittime Maunsell in Gran Bretagna

C’erano una volta due (dei tanti) sovrani di una fortezza vuota da tempo. Erano sempre in prima linea, e sempre arroccati sulla torre più alta.
I due sovrani guardavano il mondo esterno dalle proprie finestre, giudicando dall’alto e attraverso i loro vetri appannati chi era fuori dalle mura.

Un bel giorno i due sovrani decisero di staccarsi un attimo dalle finestre, si girarono e scoprirono che la corte era vuota. Pensando che il mondo là fuori fosse ingrato a non sostenere persone che vivevano chiuse nella fortezza, iniziarono ad urlare dalle loro stanze verso gli altri sovrani di uscir fuori, di distruggere l’orribile costruzione che in qualche modo li teneva imprigionati e di trovare un altro modo per vivere.

Non si erano però accorti che, nella fortezza, in realtà non erano proprio del tutto soli: altri rinchiusi vivevano nelle fogne. Questi abitanti delle fogne non potevano uscire dalla fortezza, così sgattaiolavano fuori di nascosto attraverso i tombini, rubacchiavano qua e là quel che trovavano per poi rientrare e richiudersi alle spalle i tombini.

Arrivati a questo punto, miei piccoli lettori, la storia potrebbe andare avanti in tanti modi, e potreste decidere voi il finale. Quale potrebbe essere?

1- I sovrani distruggono la fortezza uccidendo gli uomini delle fogne, senza neppure accorgersi della loro esistenza. Finalmente escono e imparano a vivere, proprio come facevano gli uomini delle fogne, come ladruncoli nel mondo esterno, pur continuando a disprezzarlo.

2- I sovrani distruggono la fortezza (portando con sé gli uomini delle fogne o lasciandoli morire, questo è indifferente), escono e ne ricostruiscono una nuova.

3- I sovrani si uniscono agli uomini delle fogne ed escono senza pensare di esser meglio o peggio di chi fuori fa festa, ma unendosi a loro.

Se però questa non fosse una favola ma la realtà, vedremmo i sovrani che urlano dalle loro stanze, con le grida che si trasformano in eco; darebbero fastidio a qualche altro sovrano per un po’, mentre ad altri potrebbero perfino far piacere. Ma le urla e i due sovrani rimarrebbero comunque rinchiusi nella fortezza vuota, senza neppure accorgersi degli uomini delle fogne, mentre fuori la gente continua a danzare.

La fortezza è vuota? Ce lo siamo chiesti in tanti nell’ultimo periodo.
Chi l’ha svuotata? E chi ha creato la fortezza?
Il problema è che esiste la fortezza o che si sia svuotata?

Di cosa è fatta la fortezza? Quale governo vige nella fortezza?
La fortezza è un edificio fatto da mura solide che lasciano tutti fuori. È costruita da premi che i sovrani si danno tra loro, da festival tutti uguali in cui i sovrani si guardano fra loro gareggiare. Tornei interni in cui il pubblico non si emoziona più, e che solo i sovrani trovano avvincenti.
I vecchi Campioni di questi tornei scelti dai sovrani, spesso non per merito ma per abitudine e amicizia, sono diventati sconosciuti ai più perché gli spalti rimangono vuoti, e perché già da tempo, dentro la fortezza, il pubblico non viene più.

Chi ha svuotato la fortezza?
L’hanno svuotata i sovrani stessi, quando hanno impedito l’entrata e agevolato l’uscita. Quando hanno cominciato a pensare che non fossero importanti il giudizio e l’emozione del pubblico.
L’ha svuotata il critico che non capisce perché il pubblico applaude qualcosa che lui non comprende e non si chiede cosa emoziona, cosa avvicina quel pubblico allo spettacolo, e pensa che sia il pubblico a dover essere ammaestrato, educato alla visione.
L’ha svuotata l’artista che crede di dover insegnare allo spettatore ad ammirarlo.
L’ha svuotata chi non sa accogliere nella fortezza i viandanti.
L’ha svuotata chi ti ha aperto la porta e poi ti ha ingiuriato.
L’ha svuotata chi ti accoglie e poi non ti fa star comodo a sedere. O chi ti accoglie per parlarti, senza sentire ciò che tu vorresti sentire. O ancora chi ti parla in una lingua che non conosci, non curandosi del fatto che tu capisca realmente oppure no.

Come si crea una fortezza? Come ci si accorge che è vuota?
Per anni gli artisti e i produttori (e qualche volta anche i critici) hanno rubacchiato in sede di finanziamenti (e continuano tuttora a farlo).
Ora si lamentano che lo Stato abbia trovato il modo per far sì che i finanziamenti vengano utilizzati per ciò che sono: una copertura delle EVENTUALI perdite!
La legge è fatta in modo tale che, se vuoi i finanziamenti, devi essere in perdita, e ti restituiscono il 70% delle perdite.

In questa nostra favola, i due sovrani osservano dalle finestre chi è fuori della fortezza elencando due modi di vivere: o scegliere uno spettacolo che faccia spendere 150, incassare 50, per recuperare 70 e perdere perciò 30; oppure scegliere uno spettacolo che faccia spendere 10, incassare 12 e non avere alcun finanziamento.

I due sovrani sanno però che esistono altri due modi di operare: il primo, che conoscono bene perché lo hanno fatto o visto fare negli anni, prevede di spendere 100, far vedere che ne ho spesi 150, incassare 50 e recuperarne 70, così intasco 20 e non dico nulla a nessuno.
Il secondo è quello per cui la legge è stata scritta dal legislatore: spendo 100, incasso 50, così recupero 35 e cerco uno sponsor che mi copra i restanti 15.

Il problema è che esiste la fortezza, o che si sia svuotata?
Un artista deve avere il diritto di sbagliare, ma ha il dovere di accorgersi dell’errore.
Un critico che vede uno spettacolo e nota di avere un gusto differente dal pubblico, può pensare che sia solo il pubblico a sbagliare? E soprattutto quel gusto nel tempo chi lo ha formato? Per quanto tempo il teatro contemporaneo si è rinchiuso in una fortezza lasciando il pubblico fuori?
È contemporaneo un teatro che non è fruito dal pubblico contemporaneo?
Quanto è contemporaneo un linguaggio poco comprensibile o poco emozionante per un pubblico che, essendo presente, è contemporaneo?
È il pubblico che, non ritrovandosi in un artista, in un linguaggio o in un tema, non è contemporaneo?
Perché non si fa differenza tra mercato e gusto del pubblico?
Chi decide la qualità? I numeri? Critici, artisti o pubblico?
Può decidere della qualità uno che sia artista, critico o direttore artistico che non esce dalla fortezza da anni e vede il popolino attraverso il vetro delle finestre della fortezza?

Peter Brook
non ha tentato di convincere gli africani che Shakespeare fosse di qualità o rappresentasse la loro vita. Ha ideato il teatro delle scarpe e il teatro del tappeto.
Se vogliamo che qualcuno entri dentro la fortezza dobbiamo farlo adattare?
Se vogliamo che qualcuno entri dentro la fortezza dobbiamo accoglierlo?

Vogliamo fuggire dalla fortezza e abbatterla?
Io ci sto. Da tempo, ci sto e ci sto con altri che, come me, vivono nelle fogne della fortezza. Sovrani, benvenuti nel club! Benvenuti nel mondo di chi vive da tempo senza contare sui finanziamenti.
Noi ci stiamo: abbattiamo le mura, usciamo insieme! Ma a patto di non costruire una nuova fortezza.

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1 Comments

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  1. says: Dario Aggioli

    Per la verità non era un insulto… Anzi.
    In verità era un po’ un omaggio. Io mi sono definito uomo delle fogne e ci ho messo in mezzo mentalmente anche Timpano, Cosentino e perché no Rezza.
    Comunque se ti senti uomo delle fogne, ti diamo volentieri il benvenuto.

    Scherzi a parte, era per differenziare chi come Massimiliano o altri (gli stessi premi ubu nominati o i critici che come te hanno deciso spesso premi e consigliato artisti) da chi invece io problema non se lo pone, da tempo.
    C’è chi giustamente è arrivato ad un punto e non può andare oltre e chi (a volte anche per scelta), non arriva a quel punto.

    Se avessi letto il mio primo articolo, avresti capito che i miei interventi saranno provocatori, nel senso di aprire e provocare una discussione. Aprire delle domande.

    P.s. Lo sfidato sceglie l’arma e io ho fatto 9 anni di scherma a livello agonistico: moriresti tu 😉

  2. says: attilio

    Aggioli e Piergiacomi, grazie per avermi nominato re, me ne accorgo solo ora, peccato, avrei potuto sfruttare la situazione molto meglio. Basta un solo presupposto per eliminare qualunque polemica ulteriore. Soprattutto quando questo presupposto, di fatto, è un insulto. L’unica cosa che potrei fare è sfidare a duello Aggioli. Ma morirebbe e io non sono così cattivo.

  3. says: Dario Aggioli

    Tanti spunti interessanti:
    1a- La fortezza era vuota o si è svuotata? Credo che il problema sia nel fatto che sia stata costruita (forse intorno al nulla)
    1b – Il problema del teatro è che è un’arte in cui il fruitore è contemporaneo all’opera stessa non solo all’autore e perciò non è un problema economico e produttivo, ma il fatto di parlare a qualcuno, senza pensare che lo spettatore, il fruitore, possa comprenderti per me è qualcosa che annulla l’arte stessa e la sua necessità. E questo va al di là delle economie…
    1c – Sul pubblico generico hai totalmente ragione, ma va anche detto che il pubblico ora del teatro di ricerca/indipendente/non prodotto (per me non è un teatro contemporaneo per nulla) è molto ristretto e spesso è composto dagli artisti stessi.
    (in alcuni casi per me è anche giusto: tipo la critica di Porcheddu a Short è un po’ inutile per un festival sempre pieno. Il pubblico è sempre quello per un festival che è pieno? Beh oltre non può andare come pubblico e conoscendo il direttore artistico e la sua intelligenza sicuramente punterà ancora più in alto).
    1d – il teatro esiste da una vita, perciò a qualcosa servirà…
    a parte gli scherzi credo che quello che dici è in parte vero, ma credo che tu abbia bypassato il ruolo del gioco.
    Il gioco è una funzione vitale, perché è legato al piacere (come tutte le funzioni vitali, come mangiare, bere, riprodursi, etc). Negli animali il gioco serve ad imparare e perciò è ciò che dici tu. Ma se un artista dimentica di generare piacere in uno spettatore (questo è dato anche dalle tematiche e le rappresentazioni drammatiche), allora lo spettatore non trova più attrazione verso il teatro (prima ne aveva molta, ma anche perché non aveva la competizione della tv e del cinema, ma già grotowski ne parla).
    1e- certamente il mio pezzo era critico anche verso la mia natura di uomo delle fogne (e per i miei simili).
    1f – c’è un passaggio sottinteso (che poi si può dedurre dal titolo, qualche frase e dal documento di Attilio Scalpellini e Massimiliano Civica al quale questo pezzo risponde): prima c’erano molti soldi che da fuori la fortezza entravano per sostenere chi ci viveva.

    2a – Parlo di qualità perché ne parla il testo di Attilio e Massimiliano. Inoltre una parte dei punteggi per i finanziamenti è dato dalla qualità del lavoro (non solo sulla bellezza o interesse ma anche tipo chi fa teatro di ricerca e chi no). Inoltre è critico nei confronti del testo dei due sovrani (Civica e Scalpellini) perché tutto il documento attesta che il teatro di ricerca è meglio di quello commerciale (generalizzando molto).
    2b – come vedi nel mio pezzo non do una risposta sulla qualità perché la penso come te.
    2c che si lega anche anche a 1d. Attento che le “emozioni” spesso sono un altro modo per apprendere attraverso il gioco in maniera meno conscia!!!

    Grazie per il tuo supporto e a presto

  4. says: Enrico Piergiacomi

    Caro Dario,

    intanto mi scuso per aver cominciato a commentare solo oggi. Sono un tipo molto distratto e non mi ero accorto della funzione “Nuovo commento” in fondo alla pagina! Le questioni sono molte e, visto che cerco sempre di dare una risposta sensata e non generica, potrò affrontarne solo due, ossia quelle che più mi interessano.

    1. “Il problema è che esiste la fortezza, o che si sia svuotata?”.
    Secondo me, il problema è chiedersi se la fortezza fosse già vuota, ai tempi in cui era stata costruita e perché il re abbia distolto lo sguardo dalla finestra solo oggi, invece che prima (è la classica questione sollevata dal principio di ragion sufficiente). Chiedersi “che si sia svuotata” implica, infatti, che all’origine fosse piena, o almeno che fosse abitata. Ora, sarà che guardo il teatro fuori dalle preoccupazioni o dinamiche produttive e pertanto mi interessa di più la sostanza, molto meno la dimensione economica, ma la mia impressione è che fosse desolatamente vuota sin dalle origini e che si volesse dare l’impressione che fosse piena per interesse di parte. Arguisco ciò perché le fortezze di cui parli hanno sempre mostrato un repertorio artistico che è sia poco stimolante per chi fa ricerca intellettuale, sia poco comunicativo per il cosiddetto “pubblico generico” (anche qui, però, attenzione: siamo davvero sicuri che sia una massa indistinta e con pochi strumenti di comprensione?) e che vuole capire attraverso l’arte qualcosa sui suoi problemi attuali, come cittadino e membro di una comunità politica. Essendo questa l’offerta, lo spazio non doveva essere frequentato da molti già in passato.
    Se ho ragione, ne segue che il re è molto più furbo di quanto emerga dalla tua descrizione. Ora lamenta che la sua fortezza è vuota e ha bisogno di sostegno, però la verità è che lo sapeva da tempo e che ha alzato la voce di recente perché è quello che gli risulta più comodo. In questo, forse, anche noi uomini delle fogne – ma può darsi che ci siano anche altri che vivono sui tetti e di tanto in tanto miagolano alla luna – abbiamo le nostre responsabilità. Non abbiamo avuto il coraggio o la forza di denunciare da tempo questo stato di cose, perché in fondo rubacchiare dalla cucina, dalle stalle e dalle camere da letto della struttura ci faceva comodo.
    Pertanto, solleverei un’altra questione. Se anche prima era vuota, perché e come si è data l’impressione che per lungo tempo la fortezza fosse piena o abitata da dignitari, servi e cortigiani?

    2. “Chi decide la qualità? I numeri? Critici, artisti o pubblico?”
    Si tratta dell’annoso problema che, pur leggittimo, è a mio avviso molto pericoloso. Già parlare di “qualità” è rischioso: si può ad esempio pretendere da una compagnia emergente o un artista che ha appena cominciato lo stesso tenore qualitativo di una “vecchia talpa” della scena? Secondo me, bisognerebbe distinguere tra chi si occupa di teatro per una reale esigenza di ricerca e conoscenza, in tutti i sensi e a prescindere dall’effettiva qualità del suo lavoro, da chi lo fa per velleità strane, potere e vana notorietà, che magari può anche essere molto bravo a creare spettacoli. Questo è facile da farsi ed eliminerebbe già una fetta consistente di furbetti che vogliono il denaro / il prestigio facile.
    Detto ciò, i criteri per riconoscere la qualità esistono, però sono difficili da individuare e non li si troveranno certo procedendo schematicamente in base a categorie prestabilite. Non so né tra coloro che dicono che il critico e l’intellettuale ha gli strumenti di comprensione maggiori, dato che anzi alcuni di loro riconoscono invece di sapere molto poco o nulla (ad esempio, io non formulo mai giudizi risolutivi, perché riconosco di avere minori cognizioni dell’artista), né tra chi afferma che l’artista è un mostro sacro che ha una visione superiore della realtà, né tra quanti sostengono che il pubblico sia necessariamente la “misura di tutte le cose”. Come accennavo prima, tra il pubblico ci sono forse in realtà “pubblici”, dove si annidano per esempio tanto coloro che vedono il teatro come un passatempo da cui ricavare sempliciste “emozioni”, quanto ascoltatori autentici e dall’acuta sensibilità culturale.
    La mia banale risposta è quindi qui la sospensione del giudizio. Continuiamo a ricercare quali sono questi criteri, senza accontentarci di soluzioni facili e assumere comportamenti censori.

    Grazie per il tuo importante spazio e scusa per la consueta prolissità. Un caro saluto,

    Enrico.