L’immigrazione come risorsa esplorata partendo dalla psicologia dell’immigrato. Un’analisi umana nel segno della complessità, oltre ogni tentativo di semplificazione antropologica, politica e sociale.
Innesti, che a fine giugno ha debuttato al Teatro Menotti di Milano, è un progetto che offre uno sguardo sugli scenari sociali e culturali ridisegnati da immigrati di prima e seconda generazione nell’odierna società italiana. Una buona occasione per riflettere sui nuovi modelli di convivenza, sulle problematiche della cosiddetta “seconda generazione”, che in Italia si prova a comporre schivando le derive conflittuali che ultimamente stanno attraversando l’Europa.
La prudenza è d’obbligo. Ma la galassia multiculturale italiana pare globalmente denunciare i fanatismi manichei e l’odierno delirio sanguinario, mirando al confronto paritetico e all’integrazione.
Il teatro, l’arte in generale, è incontro, riflessione tesa al riconoscimento reciproco. “Innesti – Mutazioni del paesaggio umano transculturale” s’inserisce nel progetto MigrArti voluto dal Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo. Il focus 2016 è stato ideato e organizzato da Outis – Centro Nazionale di Drammaturgia Contemporanea in collaborazione con Forum della Città Mondo – Comune di Milano, in partnership con Associazione La Tenda/El Ghibli, Centro di Cultura Albanese, Centro Culturale Italo Romeno.
Un concerto, sei spettacoli teatrali, tre conferenze e un laboratorio di narrazione teatrale sulla migrazione hanno caratterizzato questa iniziativa, interessante perché ha offerto varie angolazioni per accostarsi al tema della multiculturalità. Il palcoscenico del Menotti ha ospitato giovani attori e autori “italiani ibridi”, nati o provenienti da Albania, Russia, Pakistan, Afghanistan, Iran, Romania, Brasile, che hanno intrecciato esperienze di vita e d’arte con artisti italiani in senso stretto.
Il concerto “Nova Bossa Controvento” del cantautore milanese Marco Massa e dell’antropologo e musicista brasiliano Nenè Ribeiro ha incrociato melodie e idiomi. Poi si sono susseguiti il reading “Come le cicogne”, frutto del laboratorio di narrazione teatrale sulla migrazione a cura di Mihai Mircea Butcovan, scrittore e poeta d’origine romena, e “Studio su call of duty – fake version” della regista russa Tatiana Olear (direttrice artistica della rassegna insieme ad Angela Lucrezia Calicchio) con la regia di Manuel Renga. Lo spettacolo tra reale e virtuale, prende spunto dal nome di uno dei videogiochi più venduti al mondo per parlare di guerra, tra figure fantastiche e surreali global-web-trash.
Laura Sicignano, in collaborazione con Shahzeb Iqbal, ha presentato “Vivo in una giungla, dormo sulle spine”, testo tratto da un verso di un poema popolare pakistano che narra la complicata relazione tra un giovane rifugiato pakistano e l’avvocata sua tutrice.
Ancora Laura Sicignano è coautrice e regista di “Compleanno afghano”, di e con Ramat Safi, fuggito dall’Afghanistan e arrivato in Italia ancora minorenne. Uno spettacolo che racconta il diciottesimo compleanno di Ramat, snodo per riflettere sul passato e su un futuro tutto da costruire.
Ci soffermiamo su due spettacoli gemelli: “Albania casa mia”, di e con Aleksandros Memetaj e la regia di Giampiero Rappa; e “Mi chiamo Aram e sono italiano”, scritto da Aram Kian con Gabriele Vacis, e lo stesso Kian in scena diretto proprio da Vacis.
“Albania casa mia” è un percorso fisico e psicologico di un venticinquenne dal Paese delle Aquile all’Italia, dall’infanzia all’età adulta. È un viaggio identificativo che parte dal bisogno di una famiglia di ricostruirsi dopo quarant’anni di dittatura comunista.
La fatica di ridefinirsi in un paese straniero. Un’odissea di fughe, viaggi in bilico tra la vita e la morte, ritorni e ripartenze. Un atto di resilienza contro le intemperie della vita. Il desiderio di rinascere. Crescere lontano dalla propria patria, sapendo di non appartenere alla terra in cui si vive. Possedere identità multiple, e vivere da sradicati. “Albania casa mia” è un monologo che non osa sul piano registico. Memetaj, una felpa e una sedia, sprigiona tuttavia un’ironia amara, smorfie sardoniche tipicamente balcaniche. La doppia lingua è ibridazione e doppiezza, rifugio segreto, camera delle meraviglie che permette un gioco elusivo tipicamente infantile. Tra storia, politica e sogno, anche attraverso dettagli secondari come il modo di bere o di fumare, emerge l’essenza di un popolo così vicino e così lontano.
Una prova d’attore onesta per una drammaturgia a tratti così dettagliata da risultare dispersiva, che però incide soprattutto quando evoca odori e colori, e mostra con efficacia scultorea i sentimenti che si addensano sul viso dei vari personaggi citati.
Un brio leggero attraversa “Mi chiamo Aram e sono italiano”, autobiografia metà vera e metà fantastica di Aram Kian, che narra la propria educazione famigliare, scolastica e sentimentale in una periferica immaginaria città del nord Italia. Anche qui non ci scostiamo dagli ingredienti del monologo classico, un giubbotto, i jeans e una sedia. Ma è un testo frizzante, che compensa i buchi biografici con pagine inventate di una comicità inarrestabile, capace di smorzare la rabbia e la frustrazione che pure affiorano ripetutamente.
Aram, è un ragazzo italiano nato a Roma da madre romana e padre iraniano. È cresciuto a Sinago Milanese, SynagoSyty, luogo immaginario ma non troppo. Si susseguono associazioni verbali d’ordinario (bonario?) razzismo all’italiana: chiamano Aram arabo ma è persiano; lo definiscono straniero ma è italiano. Gli affibbiano l’epiteto di Gheddafi, e invece assomiglia piuttosto a Saddam. Per la prof di storia è, semplicemente, Khomeini. Se suo padre si piega e si scusa davanti alle umiliazioni, Aram alza la testa, impettito e indispettito.
Una comicità da commedia dell’arte, una leggerezza venata di realismo magico permettono a questo spettacolo d’eccellente artigianato italo – iraniano, d’esorcizzare temi complessi, come ci ricordano le intermittenti esplosioni di sottofondo.
“Mi chiamo Aram e sono italiano” chiude una rassegna che pone l’accento sulla ricchezza, sulla varietà e sugli stimoli culturali garantiti dalla società multietnica e multiculturale. Affiora un modello che prevede mutuo rispetto tra i vari gruppi di una società, e consente alle minoranze di esprimersi senza patire ostilità e pregiudizi.
L’auspicio è che iniziative come “Innesti” si moltiplichino e siano realizzate in periodi meno vacanzieri, così da costituire, per studenti e docenti, utili esperienze di teatro civile e di educazione alla cittadinanza.