Anche quest’anno il festival Interplay ha animato per dieci giorni Torino dedicando ampio respiro alle nuove generazioni della danza contemporanea, accostando in ogni sua serata personalità della scena nazionale o internazionale a nomi emergenti.
Giunta alla sua diciannovesima edizione, le scelte di Natalia Casorati, direttrice artistica del festival, si sono rinnovate e arricchite inserendo, accanto alla consueta programmazione nei teatri, una sezione denominata ‘Diffusa’, che ha invaso spazi come gallerie, musei e centri commerciali, creando “palcoscenici metropolitani”, e ampliando la funzione ‘incursiva’ di quelli che da anni sono i Blitz Metropolitani sperimentati con successo di pubblico: portare la danza contemporanea fuori dai teatri, facendola ‘scontrare’ casualmente anche con chi non se ne interessa attraverso performance in piazze della città, luoghi di aggregazione inusuali, spazi in cui si generi contatto tra performer e (nuovi) spettatori.
Nella serata conclusiva di Interplay alla Lavanderia a Vapore, luogo deputato alla danza torinese, abbiamo invece assistito ad un finale composto da cinque spettacoli in formato short.
“Document”, che i coreografi Uri Ivgi e Johan Greben hanno creato per i danzatori del Balletto Teatro di Torino, compagnia che negli ultimi anni è stata egregiamente diretta dalla danzatrice Viola Scaglione, ha aperto la serata.
Privo di un coreografo stabile e residente, l’ensamble è solito avvalersi della collaborazione di artisti internazionali per la creazione di spettacoli unici e sempre diversi. I coreografi israelo-olandesi, già ospitati nel 2017 dal festival, tornano con un disegno coreografico fatto di corpi e luci.
Quello che si presenta allo spettatore è un’opera dai toni cupi, dove i performer si muovono individualmente all’interno di uno spazio bicromatico, e solo di rado e casualmente raggiungono l’unisono. Con uno sguardo per niente positivo verso il futuro viene evocata con forza la sofferenza quotidiana all’interno della moderna società urbana, presentando indumenti trasandati vestiti da altrettanti corpi lacerati. Si cerca una via per l’affermazione personale, ma non di rado ci si imbatte in ostacoli e sottomissioni. La danza si fa lotta per il più forte. Le capacità stesse dei danzatori sono limitate e soffocate dalla coreografia per rappresentare un lavoro che sia specchio dell’odierna realtà, in cui emergono tensione continua e desideri taciuti.
“Some remain so”, del francese Alexandre Fandard, porta in scena la tecnica Krump: una danza urbana nata negli anni ‘90 in seno alla comunità afroamericana del sud di Los Angeles.
Dopo lo sguardo rivolto al mondo esterno del Balletto di Torino, si passa ad un’analisi introspettiva volta alla conoscenza del singolo.
“Tutti siamo nati pazzi, qualcuno lo rimane”. Da questa affermazione di Samuel Beckett prende origine una danza minimale ed essenziale, fatta di piccoli gesti che portano in sé il potenziale di una turbolenza e di una possibile espansione, che tuttavia viene controllata dalla forza mentale e dalla volontà dell’esecutore. Fugaci quadri, divisi da altrettanti repentini bui, sono accompagnati dalla delicata musica del “Nisi Dominus” vivaldiano, in voluto contrastano visivo e sonoro con la violenza espressa dalle tecniche di insolazione Krump. Un piccolo capolavoro che condensa, in soli dieci minuti, un’analisi minuziosa della complessa psicologia del singolo individuo e della sua naturale, quanto difficile, capacità di stare al mondo.
Nella parte centrale della serata, in linea con la ricerca di spazi condivisi e differenti, ci si sposta all’esterno della Lavanderia a Vapore, dove viene eseguito “Liov”, un ipnotico solo per due danzatori.
Un’importante contraddizione è già presente nella descrizione del lavoro, firmato dallo spagnolo Diego Sinniger, che propone una lettura sulla coesistenza di conflitto interno ed esterno. Amore e violenza all’interno della sfera relazionale rendono spesso difficile distinguere le vittime dagli aggressori, e spesso tutto si risolve in una battaglia personale e solitaria.
I due personaggi incarnano la medesima personalità ma sono al contempo governati da desideri diametralmente opposti: se uno decide di ribellarsi, l’altro si convince a restare. Questa polarità interpretativa, pur affrontando un tema di spessore morale e sociale, riesce a strappare sorrisi al pubblico, convogliato in un cerchio e coinvolto per mezzo di sguardi e richieste provenienti da uno dei protagonisti.
Si torna ‘sul palco indoor’ con “Bloom”. Già il titolo, poi confermato dai movimenti sulla scena, richiama il complesso e ordinato meccanismo di un fiore che sboccia. La fioritura rappresentata è generata da un moto continuo e perpetuo composto di gesti ripetitivi dai ritmi gradevolmente mutevoli. Senza mai presentare contatto fisico fra loro, i danzatori incarnano i diversi petali di un giglio nascente che gravitano attorno ad un centro. Con la geometria studiata si genera un’armonia dinamica di simboli e flussi che riverberano nell’aria, richiamando ai sensi l’inebriante profumo della primavera.
Questa coreografia firmata da Daniele Ninarello, creata per la MM Contemporary Dance Company, costituisce uno dei tre felici esiti del progetto Prove d’Autore XL sostenuto della rete Anticorpi XL di Ravenna, rivolta ai giovani emergenti che operano alla ricerca di nuovi linguaggi.
A chiudere questa ricca edizione arriva “120gr” di Sara Pischedda. La figura della danzatrice si impone inizialmente avvolta da un vestito contenitivo, giallo abbagliante. Un abito forse troppo avvolgente per lei. Con gesti precisi e inequivocabili si presenta sulla scena: è una ragazza qualunque che si atteggia a importante, quanto goffa, influencer. Alla disperata ricerca di notorietà, si maschera dietro agli imperanti social network.
Ironica sul tema della perfezione e sull’apparire, dopo la breve introduzione, Sara si spoglia dei simboli di una bellezza imposta per liberarsi finalmente ed apparire nella sua reale figura, che risulta irradiare e risplendere di una grazia tutta personale, dalla forte identità.
Distanziandosi dall’idea imperante di una fisicità conforme, le cui effigi sono le immagini e le pose immortalate dai flash degli smartphone, si codifica qui un possibile futuro per la ormai stantia estetica del gusto e del bello dei nostri tempi.
Indagare la società nel suo complesso, distinguerne all’interno le singolarità, cercare contatto diretto fra tutti i suoi elementi, senza tralasciare le personalità emergenti, si confermano dunque anche in questa edizione le linee guida, vincenti, di Interplay.