Inventaria IX. A Roma la festa ‘cicciona’ del teatro off

Nicola Sorrenti e Ludovica Apollonj Ghetti in Ciccioni con la gonna
Nicola Sorrenti e Ludovica Apollonj Ghetti in Ciccioni con la gonna

Nella insopportabilmente fredda e piovosa primavera romana, anzi no, nella insopportabilmente torrida primavera romana, a far da collante tra le intemperanze delle intemperie e l’affanno dell’afa calata d’un tratto, Inventaria 2019la festa del teatro off, giunta alla nona edizione, si è allungata sulle serate romane.
Tanti gli spazi coinvolti (Teatro Argot, Teatro Trastevere, Teatrosophia e Teatro Studio Uno, Carrozzerie N.O.T.), tante le compagnie e gli artisti che hanno affollato la città di corti, performance, nuove proposte ancora in fieri e spettacoli completi, «chiudendone – come ripete il direttore Pietro Dattola – la stagione teatrale».
Proposte da tutt’Italia e da fuori sono giunte per la selezione, che si gloria a pieno diritto dei numeri dei lavori scelti: 29 compagnie, 13 prime nazionali e 10 prime romane tra le quattro le sezioni previste. Quattro pure le giurie, quattro i premi di qualità e altrettanti dal pubblico, premi veri e teatralmente tangibili, consistenti in residenze, repliche, servizi fotografici, consulenze.

C’è veramente tutto, in Inventaria, e il pubblico lo sa, talvolta fatica a farsi raggranellare, col sopracciglio arcuato, altre volte esorbitante richiede e ottiene una seconda replica straordinaria (è il caso di “Milf”, fuori concorso di Natalia Magni). E’ l’imprevedibilità del teatro autoprodotto, generoso, faticoso, che nasconde chissà cosa dietro quel sipario chiuso (quando c’è): perle ignote o tempo perso.
E poi spettacoli fuori concorso, come “O’ pesce palla” di Garbuggino-Ventriglia, “Io sono partito” di Riccardo Goretti e “Pensare – programma delicato”, manifestazione sul palco della Compagnia DoveComeQuando, inventrice e organizzatrice del festival.

La sezione spettacoli, quella di cui chi scrive è stato giurato insieme a Fabio Massimo Franceschelli e Natalia Magni, è composta di quattro lavori totalmente diversi l’uno dall’altro, come rivendicato dalla direzione artistica, che vuole insistere sulla molteplicità dei linguaggi del teatro autoprodotto. Un’idea di “off” che non cede al sospetto di spontaneismo arruffone né si accontenta di strizzatine d’occhio a audience amiche, ma che rivendica indipendenza, coraggio, spirito d’iniziativa e di ricerca – e d’errore.

Apre le scene “Un qualche rumore fa” di Romina Paula, tradotto adattato e messo in scena da Alice Ferranti nell’ambito del progetto B.A.R.C.A., per produzioni di testi della nuova drammaturgia argentina.
Il lavoro racconta, all’interno di una gamma espressiva volutamente contenuta, ma non per questo meno penetrante, senza picchi esteriori ma con grande eleganza di nuance, la vita di una coppia di fratelli, Federico Brugnone e Antonio Bannò, che (non) fanno i conti con la morte della madre, e il cui cechoviano ménage è turbato dall’arrivo di una cugina, la stessa Ferranti, irrisolta ma vitale, bomba a orologeria di ricordi ed erotismo.
Il testo non è particolarmente originale, e alcune delle interpolazioni applicate possono essere inessenziali, così come irrisolta rimane la parte scenografica, ma l’esecuzione attoriale – guidata da una ferma mano registica – lo smalta di un naturalismo senza tic, tanto sapiente da meritarsi la menzione della giuria.
Dall’altra parte del mondo – ma sullo stesso palco – “Dov’è la vittoria”, testo nuovo scritto a sei mani e messo in scena da Giuseppe Maria Martino, reinventa la storia di Giorgia Meloni e degli anni dell’ultimo centro-destra, con strumenti a mezza via tra la citazione e il tentativo di ricostruire una psicologia attraverso delusioni adolescenziali e un linguaggio indeciso tra il grottesco e il televisivo. Il tutto in un gioco ad alti ritmi (botta e risposta legati da cinghie di trasmissione che suonano eterodirette) tenuto insieme grazie allo stratagemma del teatro nel teatro. Il pubblico è conquistato e gli attribuisce il proprio premio.

“Otello S.r.l.” di Carichi Sospesi, in prima romana, è un’attualizzazione della tragedia shakespeariana che opera con qualche accenno alla contemporaneità ma non sa farsi portatrice di significati radicalmente nuovi.
Con un equilibrio ancora da raggiungere per quanto riguarda il ritmo della scena, che nonostante il fluido mutare di situazioni illuminotecniche e audio tende a uniformarsi e non sa dispiegarsi in pieni e vuoti, e con una recitazione interessante per molti versi, innegabilmente generosa ma disomogenea nell’ensemble, il carattere generale dell’operazione sembra rimanere indeciso tra l’epicità e il naturalismo, tra la riscrittura profonda e un’operazione di mero adattamento storico.

Ma prima, come un calcio volante, irrompe sulla scena di Carrozzerie n.o.t. “Ciccioni con la gonna”, dell’americano Nicky Silver (Fat men in skirts, 1989), spettacolo vincitore di questa sezione: testo complesso e proteiforme, con personaggi in continua mutazione, che ripensa il mito edipico circondandolo di violenza e humor nero, è affidato a un gruppo di attori strabilianti, ed è confezionato in una messinscena a cui nulla sfugge, dalla scenografia alle luci, dalla recitazione all’esegesi del testo.
La trama è un indefesso caleidoscopio lungo due ore, che passa per quattro ambientazioni, spostamenti di tempo, doppi ruoli, un vero godimento per la mente e per la pelle, un cavallo mutante imbizzarrito di temi, rapporti, stravolgimenti, che è capace di schifare e commuovere persino con la cara vecchia immedesimazione, e che prosegue scatenato tra monologhi spietati, effettacci splatter, comicissimi calembour, fino a regalare un finale di autocoscienza un po’ ridicolo e probabilmente superfluo ma degno di essere, anche quello, gustato fino all’ultima battuta, montato e frustato fino all’ultima falcata.
La regia di Michele Demaria sa dare il giusto peso ai singoli momenti ma non perde mai di vista l’architettura complessiva, e gli attori (Ludovica Apollonj Ghetti, Roberto Salemi, Silvia Salvatori, Nicola Sorrenti) le sono così unanimemente solidali che non si notano scollature, né automatismi, né cali, né gratuità di sorta.

Con la premiazione di tutte le categorie, il 16 giugno si conclude al piccolo prezioso Teatro Studio Uno di Torpignattara il festival, ricco, abbondante, ciccione, con e senza gonna, sincero fino all’ultimo applauso, fino all’ultimo scatolone caricato in macchina, a tarda notte.

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