Ippolito Chiarello. Sulla necessità del lavoro d’attore per nutrire la comunità

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Ippolito Chiarello
Ippolito Chiarello

Istrionico e divertente, eclettico ed entusiasta, versatile ed interessante: è Ippolito Chiarello, proprio oggi al debutto con un nuovo lavoro – ancora in fase di studio – dedicato ai musicisti morti a 27 anni, e di cui ci parlerà in questa chiacchierata.
Chiarello non solo attore, non solo attore di teatro, non solo salentino, anche se il cuore batte a Corsano, dove è nato. Iconica la maschera di Mimmo Carunchio in una produzione epocale di Teatro Koreja, “Acido Fenico”, memorabili i camei cinematografici, come quello nel ruolo di Nasina in “Fine pena mai” o, ancora, le partecipazioni a video musicali, come l’emblematico “Le radici ca tieni” dei Sud Sound System, dove cerca di andarsene dal territorio leccese, ma alla fine non ce la fa… un po’ come nella realtà.

E deve avere fatto bene, se è vero (come è vero) che da questo sud del Sud, che per lui corrisponde piuttosto al centro di un Mediterraneo ideale, irradia i suoi valori teatrali e non solamente. Come con “Fanculopensieroff” che è arrivato fino a Berlino attraversando mezza Europa.

Lo incontro allo Scipione Ammirato, una location importante di Lecce, quasi un landmark, alla fine di una sessione del laboratorio teatrale “Per un “attore” a mani nude. Studi sparsi”, dove il virgolettato è tutt’altro che vezzo estetico, ma enfasi sul fare attorale, come agente della trasformazione e materia di un uomo lavoratore.

È interessante l’uso che fai di Facebook, coerente con un progetto di restituzione del teatro al pubblico e di un coinvolgimento diretto di quest’ultimo nei processi di lavorazione del teatro. Tornerei su di un post recente in cui ti interrogavi sul ruolo dell’attore nella società: «Ma a cosa dobbiamo servire se la materia prima a cui si rivolge il nostro “agire” (il pubblico, le persone, il genere umano) lo lasciamo “fuori” da ogni processo legato alla costruzione del senso e della necessità del nostro “lavoro” per il nutrimento di una comunità?».
Io mi sarei già cancellato da Facebook se non avessi la sensazione di usarlo per comunicare e raggiungere tutti, anziani e giovanissimi… Internet, Youtube e i vari social network danno modo alle persone di riconoscere un impegno e di rimanere affascinati dall’onestà di percorsi coraggiosi, ed è questo che non mi stupisce e che invece stupisce. Il rapporto fra il teatro e la città, a partire dal quartiere, è fondante, e potrebbe essere la soluzione di un’assenza.
La “stortura” del teatro, oggi, è che molti attori costruiscono i loro spettacoli per mostrarli a quel pubblico, a quel critico, a quel festival, con l’unica preoccupazione della “famosità”, perdendo di vista la necessità del teatro come passione e come scelta. Io penso che il punto di partenza sia la “costruzione” del lavoro d’attore o perché vuole cambiare la società, educarla, o semplicemente perché vuole emozionare, dare modo alle persone di nutrirsi di emozioni.

In questo senso è il tuo coinvolgimento nel progetto della Ammirati Culture House…
La mia intenzione è fare del “teatro nel quartiere” un lavoro “reale”. L’obiettivo è di formare questo gruppo di persone che frequentano il mio laboratorio non solo attoralmente ma anche a livello esistenziale. Se un attore non riesce a capire “dove sta”, “chi è”, “perché”, sarà più finto di chi è già finto in quanto operatore della finzione. Vorrei formare chi partecipa al laboratorio nella consapevolezza che deve portarsi qui i suoi problemi e le sue gioie, per giocare, entrare in relazione, ma poi c’è il quartiere, che va esplorato e conosciuto. E, dall’altra parte, vorrei far capire al quartiere che qua c’è un luogo aperto, un luogo dove tutti possono venire e utilizzarlo, un “non-teatro” attrezzato con le loro sedie, con i nomi delle famiglie che le hanno donate, e che nelle serate di arte o di filosofia possono venire vestiti come quando stanno a casa, perché è di proprietà del quartiere. Qui diciamo “u barra” un luogo nuovo che non esiste, che non è il bar, non è l’oratorio, non è la sede di partito, dove incontrarsi e fare scambio di esperienze. E per questo sarebbe bello che diventasse il “quartiere Scipione”, che ancora non esiste ma che potrebbe nascere dalle persone.

Ippolito Chiarello
Ippolito Chiarello

Parliamo della tua compagnia, Nasca Teatri di Terra. Cosa significa questo nome?
Nasca da “naso”, un naso importante, il mio, e anche per il concetto di nascere. E Teatri di Terra perché d’ora in avanti gli spettacoli devono cominciare dagli amici, dalle cose che contano, dalla terra, poi viene tutto il resto: gli orpelli, la luce, la scena eccetera. Io voglio costruire lo spettacolo sapendo che deve dipendere da me, poi ci metto magari anche gli ologrammi, ma prima devo lavorare sul senso.

Che cosa stai preparando? In quali progetti sei coinvolto?
Oltre al montaggio del film tratto dalla esperienza del ‘barbonaggio teatrale’ “Ogni volta che parlo con me”, redatto insieme a Matteo Greco che ne cura anche la regia, attualmente ho tre progetti teatrali a cui tengo molto. Un primo studio sul killer, che si intitola “Quanto mi dai se ti uccido?”, un lavoro leggero, molto divertente, tratto dal libro di Walter Spennato, “Piccoli omicidi del cazzo”, che riflette sul fatto che ormai si ammazza per niente, per delle fesserie, quel tipo di omicidi che commetteresti anche tu, per un parcheggio. Sono tutti i pensieri che questo killer porta con sé in una valigetta insieme al suo diario e a pistole che forse ha ereditato dalla madre, che forse ha assassinato. È uno scherzo teatrale che mi piacerebbe mettere in scena con dei musicisti, con un contrabbasso, molto fumettistico, alla “Leo Pulp”, qualcosa di divertente, senza alcuna pretesa. Sono molto scrupoloso nella memoria, mi piace dare tempo ai miei lavori di maturare.
Poi, secondo progetto, sulla musica e il mito, dedicato a quelli che sono morti a 27 anni: Jimi Hendrix, Jim Morrison, Brian Jones eccetera, non tanto per raccontarli ma per raccontare che cosa un poster può diventare; perché un mito è un’icona che appendi sulle pareti della tua camera e diventa un’ispirazione. È la storia di uno che vorrebbe diventare un poster, e mi rifarò al libro di Osvaldo Piliego, “Fino alla fine del giorno”, che mi piace molto e parla di miti giornalieri, associando ogni giorno a una canzone. Lo presento, in forma di studio, da oggi, 7 maggio, nell’ambito del circuito “Quante storie in giro…“.
E ancora, terzo progetto, un lavoro per i bambini che si intitola “Mattia e il nonno”, un testo di Roberto Piumini, che aiuta i ragazzi ad attraversare il mistero della morte.

Chi è il tuo maestro?

Carmelo Bene! L’unica vera novità non-teatrale del teatro. Colui che ci ha fatto comprendere quanto sia stupido recitare a teatro, e quanto importante sia essere. Che cosa significa “Un Amleto in meno”? Che non c’è mai una ripetizione, una interpretazione, ma che c’è un essere, Amleto, che la prossima volta non sarà.

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