Kilowatt 14: per una cultura dello spettatore

Giuseppe Stumpo qualche giorno fa durante un incontro di Kilowatt|L'incontro Visionari-Fiancheggiatori del 25 luglio|Orfeo e Euridice|Giorgia Nardin
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L'incontro Visionari-Fiancheggiatori del 25 luglio
L’incontro Visionari-Fiancheggiatori del 25 luglio (photo: Luca Del Pia)
“O tutta la città comincia a sentire il festival come una cosa propria, oppure è meglio se smettete di farlo” (un tecnico, anno 2005).
È questa citazione, preceduta da una frase di Leo De Berardinis, che apre la pagina “Chi siamo” del sito di Kilowatt.

Il festival di Sansepolcro, giunto quest’anno alla sua dodicesima edizione, si propone dunque di «diventare “una cosa propria” per il pubblico, la città e il territorio», e la compagnia Capotrave guidata da Luca Ricci, che lo organizza, persegue questo obiettivo coinvolgendo ogni anno un gruppo sempre più nutrito di abitanti del posto (i cosiddetti “Visionari”) nella delicata fase della scelta di parte degli spettacoli da inserire nel programma.
Si parte dal locale, quindi, per proiettarsi in una dimensione più ampia, quella della scena contemporanea cui il festival è dedicato, dando spazio ad artisti emergenti non solo in campo teatrale, ma anche musicale, letterario e performativo.
 
Il delizioso borgo medievale di Sansepolcro (ricchissimo di tesori artistici e città natale, tra gli altri, di Piero della Francesca) acquisisce così, grazie a Kilowatt, una fisionomia particolare: non più soltanto piccolo gioiello della Valtiberina, meta di turisti, ma anche punto di incontro e centro creativo sia per gli abitanti sia per artisti, operatori, spettatori provenienti da tutta Italia.

A Palazzo delle Laudi ogni sera si sono svolti gli Incontri all’aperitivo, con temi sempre diversi. Mercoledì scorso c’è stata la presentazione del prossimo meeting IETM, promosso da Etre – Associazione delle Residenze lombarde, che si terrà a Bergamo dal 23 al 26 aprile 2015.
IETM è una piattaforma nata nel 1981 per favorire l’incontro e lo scambio di idee e informazioni fra operatori delle arti performative; oggi conta 550 membri provenienti da 50 Paesi. Tra le sue attività più importanti, i grandi incontri organizzati due volte l’anno, occasioni dove è possibile conoscersi, dialogare e cercare soluzioni alle difficoltà che spesso chi lavora in ambito culturale deve affrontare.
 
Intorno alle 19 parte la visita guidata all’esposizione NASR – Nuove Aree di Sosta Religiosa, realizzata dai giovani artisti Lorenzo Cianchi e Michele Tajariol, vincitori del bando Kilow’Art 2014.
La mostra, disseminata per le vie del centro storico, è un’ulteriore testimonianza del curioso equilibrio creato da Kilowatt a Sansepolcro: elementi locali e tipici vengono in qualche modo idealizzati e resi simboli di un sentimento “universale”. La religiosità viene espressa con affettuosa ironia: gli artisti hanno collocato in alcuni punti strategici del borgo dieci edicole sacre – a imitazione di quelle, più antiche, che caratterizzano le strade del centro -, inserendovi però non le tradizionali immagini di santi e madonne, ma le rappresentazioni dei “miti” raccontati da dieci abitanti.

Ogni tabernacolo è contrassegnato da una lettera che, insieme all’immagine racchiusa, indica il piccolo oggetto di venerazione personale che ciascuno dei dieci biturgensi coinvolti ha voluto condividere rispondendo alla domanda “che cos’è per te il mito?”. Si va dalla Z di Zillone (famoso pugile di Sansepolcro), rappresentato da uno scarabeo (“zilla” in dialetto), alla B di Bocca di Rosa, la cui immagine sfuggente è stata ottenuta grazie alla sovrapposizione di 80 diversi volti femminili, alla Q, lettera residuale che contrassegna appunto un residuo, uno scarto industriale dalla forma straordinariamente “artistica”.
L’esposizione, come spiega il curatore di Kilow’Art Saverio Verini, è «un omaggio all’idea di ricordo, di vissuto personale» ed è la dimostrazione di come «il ricordo possa essere elevato a monumento».
Dopo una veloce cena “comunitaria” sotto le logge del Palazzo delle Laudi, cominciano gli spettacoli. La serata prevede due appuntamenti molto diversi, uno di prosa, l’altro di danza, accomunati però dalla presenza in scena di una coppia di giovani interpreti.
L’alternarsi e il mescolarsi dell’elemento maschile con quello femminile sembra la cifra distintiva di questo particolare e forse casuale abbinamento. Per il resto, i due lavori non potrebbero essere più diversi.

Orfeo e Euridice
Orfeo e Euridice (photo: Luca del Pia)
Il primo, una co-produzione fra Teatro Presente ed Eco di Fondo, mette in scena “Orfeo ed Euridice” di César Brie, nella doppia veste di drammaturgo e regista. Il testo, ennesima rivisitazione del celebre mito, ha il merito di affrontare un tema spinoso e attuale come quello dell’eutanasia ribaltando l’assunto della storia originaria: in questo caso Orfeo discende agli Inferi non per cercare di riportare in vita l’amata sposa, ma per liberarla dallo stato vegetativo irreversibile in cui un incidente l’ha ridotta, offrendole finalmente la possibilità di morire.
L’inferno è il reparto di terapia intensiva, ma anche il tormentoso e lunghissimo iter medico-giuridico che il protagonista deve affrontare prima di poter sottrarre la propria compagna al limbo di una vita inconsapevole e dipendente dalle macchine.

L’intento è lodevole, la prospettiva sul mito piuttosto originale. La realizzazione però lascia perplessi. A cominciare dal testo: forse eccessivamente lungo e ripetitivo, mescola, senza riuscire a trovare un suo equilibrio, elementi comici, grotteschi, poetici e realistici, risultando troppo didascalico (sono gli stessi protagonisti, ad esempio, ad annunciare al pubblico la propria trasformazione da Giacomo e Giulia in Orfeo ed Euridice).
Tutto questo si riflette sulla scena: c’è il tentativo di giocare con i registri espressivi, ma spesso ai due attori è imposto un passaggio troppo rapido dal comico al tragico e viceversa; alcune idee – come i movimenti “slow motion”, accompagnati dalla musica di Glück, che caratterizzano l’incontro tra i due innamorati o la rappresentazione di Euridice come una sorta di burattino inerte -, pur efficaci per quanto non troppo originali, vengono riproposte in modo troppo insistito.

Dialoghi e monologhi, ora improntati a una quotidianità standardizzata, quasi “televisiva”, ora a un lirismo ridondante e a tratti banale, finiscono per diventare un po’ piatti, nonostante gli sforzi interpretativi dei protagonisti Giacomo Ferraù e Giulia Viana, forse non ancora nel pieno della propria maturità artistica, e quindi non pienamente in grado di affrontare tutte le difficoltà di una messa in scena per niente agevole. Devono infatti montare e smontare gli elementi scenici, disporre e togliere oggetti, cambiarsi d’abito e soprattutto passare in modo repentino, oltre che da un registro all’altro, anche da un personaggio all’altro: sono infatti chiamati ad interpretare non solo i protagonisti, ma anche una serie di comprimari, spesso senza avere il tempo di compiere un’adeguata “trasformazione”. Di loro si apprezzano comunque la generosità e le buone doti espressive, che forse uno spettacolo diverso potrebbe meglio valorizzare.

Un altro – e più grave – limite di questa performance si riscontra invece nella tendenza a voler “dare risposte”: anche se il tentativo è quello di mettere in scena tutte le voci del dibattito, viene dato maggior risalto e spessore umano al “partito” dell’eutanasia.

Giorgia Nardin
Giorgia Nardin ritratta in backstage da Luigi De Frenza nell’ambito del Workshop di fotografia di Futura Tittaferrante
Non si vuole certo qui entrare nel merito delle opinioni personali (chi scrive, per altro, è favorevole alla tesi propugnata da César Brie), ma semplicemente sottolineare che il teatro e l’arte hanno piuttosto il compito di porre interrogativi, suscitare riflessioni ed emozioni, suggerire, disseminare dubbi, come dimostra efficacemente il secondo spettacolo, “All dressed up with nowhere to go” della coreografa Giorgia Nardin.
All’ingresso del pubblico i due danzatori (i bravissimi Marco D’Agostin e Sara Leghissa) sono già in scena: immobili su una sola gamba, intrappolati in camicie dal collo strettissimo, così diversi eppure così simili.
Il movimento inizia con un tremito impercettibile, continua con piccoli gesti quasi meccanici: i corpi sembrano lottare contro qualcosa di invisibile, che li costringe a ripetere le stesse azioni, a mantenere sempre la stessa scomoda, rigida posizione. Assistiamo progressivamente a una sorta di sofferta liberazione, realizzata attraverso una danza sempre meno convulsa e sempre più distesa, attraverso il progressivo impadronirsi dello spazio vuoto, ma non si giunge mai ad un totale affrancamento del corpo: lo stesso gesto, lento e meditativo, di togliere la camicia non porta nell’immediato a movimenti più sciolti, e la conquista della libertà sembra così una lotta lenta e dolorosa.

I danzatori cominciano a interagire, dando vita a quadri plastici ricchi di tensione e suggestione. I ruoli tradizionali legati agli stereotipi di genere si invertono: così è quasi sempre la donna a sostenere e sollevare l’uomo, in raffigurazioni che sembrano a volte evocare il soggetto della “pietà”, a volte l’idea di nascita.
Con un linguaggio poetico la coreografa crea una performance intensa ed emozionante, capace di stimolare molteplici riflessioni sulle costrizioni sociali, sui rapporti tra i sessi, sulla libertà.

Accolti calorosamente dal numeroso pubblico entrambi gli spettacoli, terminiamo la nostra serata con la rassegna musicale “Sei pezzi facili”: protagonista la voce ruvida di Andrea Appino degli Zen Circus.

Si respira un’atmosfera calda e accogliente a Sansepolcro, i partecipanti possono seguire tutte le iniziative in programma grazie ad un’organizzazione efficiente e puntuale, si creano molte occasioni per stare insieme e chiacchierare anche tra perfetti sconosciuti, non ci si sente mai soli né lasciati a se stessi.

Giuseppe Stumpo qualche giorno fa durante un incontro di Kilowatt
Pino Stumpo qualche giorno fa durante un incontro di Kilowatt (photo: Luca Del Pia)
Doveva essere anche per questo (e qui i lettori ci perdoneranno una piccola disgressione) che Giuseppe (Pino) Stumpo amava tornarci.
Chi scrive di teatro lo conosce bene per essere stato uno spettatore appassionato, una presenza costante che – pur non essendo un addetto ai lavori – come tanti critici partiva dalla città in cui viveva e lavorava, Venezia, per seguire i festival di teatro contemporaneo con sguardo attento e partecipe.

Proprio mentre era a Sansepolcro per Kilowatt, ieri notte, per un malore improvviso se ne è andato, lasciando tutti attoniti da questa improvvisa mancanza. Quella di uno sguardo sincero verso la scena, di uno spettatore che si metteva alla pari con artisti e critici per cercare un dialogo. E che sui social network era pronto a dibattiti ma anche ad invitare altri potenziali spettatori a scoprire il teatro, come aveva fatto solo pochi giorni fa: “Se volete “sentirvi meglio” venite a farvi otto giorni di ferie a Kilowatt Festival qui a Sansepolcro; arte, natura, cultura l’avrete ad ogni angolo, qui e nei paraggi, e spenderete pochissimo mangiando e dormendo benissimo… E gli spettacoli e gli eventi del festival? Non vi resta che goderveli e giudicarveli, ovvio che ne vale la pena!”.
Uno spettatore di cui sentiremo la mancanza.
 

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