Kilowatt Festival 2024: il linguaggio dell’arte contiene moltitudini

Sfera (ph: Luca Del Pia)
Sfera (ph: Luca Del Pia)

La danza di Virgilio Sieni e Michele di Stefano accanto alle proposte teatrali di Nerval Teatro e Teatro dei Borgia

Tra i tanti festival che ogni anno frequentiamo, Kilowatt è sempre stato forse quello che ci ha donato, nelle grandi e variegate proposte che ogni anno offre, le maggiori e inattese sorprese, allargando il nostro sguardo verso nuove e inedite visioni teatrali. Ritornare, poi, per la 22^ edizione a Sansepolcro, il paese di Piero Della Francesca, dopo i due anni in cui siamo stati spettatori nella sezione dell’evento ubicato a Cortona, è stato assai stimolante, anche per rivisitare le opere del sublime Maestro al museo del paesello toscano.

Quest’anno abbiamo attraversato per tre giorni il festival seguendo 16 spettacoli, molto diversi tra loro e per certi versi di natura inaspettata, scegliendo di porre il nostro sguardo su alcune proposte che, più di altre, hanno stimolato la nostra curiosità: non per niente quest’edizione ha avuto il titolo esemplificativo di “Contengo moltitudini”. Come sempre è avvenuto, i direttori artistici del festival, Lucia Franchi e Luca Ricci, hanno dato ancora molta attenzione alla danza, anche con la presenza di due eccellenze come Virgilio Sieni e Michele di Stefano con il suo gruppo MK.

Sieni si è misurato con un progetto di danza urbana, “Sleep in the car”: in diversi luoghi della città ma contigui fra loro, tre performer che avevamo già apprezzato in altre occasioni, Jari Boldrini, Sara Sguotti e Maurizio Giunti, si impossessano di una macchina d’epoca che viene abitata con la danza, attraversandola con multiformi sentimenti, e facendola diventare uno spazio iconico, simbolico, della condizione umana del nostro tempo. Il piccolo abitacolo della vettura, scomodo e respingente da vivere, a tratti ci pare poterci donare di contro un senso nuovo di libertà, un nuovo spazio in cui rifugiarci e subito dopo di contrappasso ci pare invece un simbolo di costrizione, dell’unica possibilità di avere una casa da poter abitare. 
Impegnati nella danza urbana ci sono molto piaciuti anche lo spagnolo Angel Duran e Emanuel Santos su una coreografia di Michelle Scappa.

Sleep in the car (ph: Luca Del Pia)
Sleep in the car (ph: Luca Del Pia)

Michele Di Stefano, invece, in “Sfera” ci imbroglia lo sguardo con il corpo di sette danzatori di nero vestiti, che reinventano continuamente in scena il loro spazio d’azione, mescolandosi in un turbinio di visioni in cui lo sguardo dello spettatore riesce a perdersi. È un continuo lasciarsi e cercarsi, abbandonarsi a sé senza accorgersi più di chi ci sta vicino, per – subito dopo – avere bisogno di fare comunità in un continuo gioco a nascondino, forse di inutile consistenza.

Largo spazio, in questo campo, anche ai più giovani, come per esempio Sofia Nappi con la sua compagnia KOMOCO, prodotta da Sosta Palmizi, che in “Ima” mette in scena cinque danzatori per celebrare il tempo, partendo dalla vecchiaia.
L’inizio è, in questo senso, veramente folgorante, con i performer agghindati con maschere, e muniti di grandi valige per il lungo viaggio che li attende, che sembrano usciti da uno spettacolo della compagnia tedesca Familie Floz. Si muovono con fatica, celebrando la vecchiaia, danzando sulle musiche del valzer di Šostakovič.

Ima (ph: Elisa Nocentini)
Ima (ph: Elisa Nocentini)

Si ritorna poi indietro con il tempo, per viverlo qui e ora, e i davvero generosi e “incandescenti” Arthur Bouilliol, Leonardo de Santis, Glenda Gheller, India Guanzini, Paolo Piancastelli, si vestono e si svestono, visitando ferocemente la vita in ogni suo diverso momento. Il termine Ima in giapponese indica “il momento presente”; in aramaico ed ebraico sta per “madre”, inteso come rinascita e rinnovamento. E qui la danza nel suo continuo mutare ci comunica in modo fantasmagorico quante possibilità possano coabitare nella nostra fragile e illusoria possibilità di essere “umani”.

Molto curiosa e di forte suggestione la performance durazionale che abbiamo visto all’oratorio di Santa Maria delle Grazie: tre ore in cui lo spettatore può entrare e uscire per assistere a “Motus Mori Museum”, della coreografa tedesca Katia Heitman.
Qui, dopo un lungo percorso di ricerca durato diversi anni, cinque performer con il volto imbiancato dal tempo ripetono in perfetto slow motion un catalogo di gesti, raccolti in tutto il mondo durante questa fervida e corroborante esperienza. Scegliendo nel tempo posizioni del nostro sguardo sempre diverse, ci sembra di poter riverberare le posture dei corpi di uomini e donne che duemila anni dopo la lava del Vesuvio ci ha restituito. E nell’osservazione di quei corpi che abbiamo davanti, ci accorgiamo come abbiano nel medesimo tempo anche la capacità di ricordare i nostri di gesti che quotidianamente compiamo e che inesorabilmente il tempo potrà cancellare. 

Il digitale, un’altra delle opzioni teatrali amate da Ricci e Franchi, è stato presente con “Il teatropostaggio” di Giacomo Lilliù e Pier Lorenzo Pisano, progetto posizionato su Instagram che si propone di mescolare i linguaggi della performance con quelli dei meme.
Qua, all’interno di una chat, che vediamo anche posizionata su un grande schermo, va in scena una riscrittura digitale di Goldoni, creata a suon di selfie, gif ed emoji, in cui tuttavia “un manipolo di disturbatori, irrompe nel gruppo, e lo bombarda di meme creati a partire dalle immagini condivise dagli stessi interpreti”.

Ma il nostro interesse poi si rivolge al teatro dal vivo, anche qua ancora una volta proposto in mille sfaccettature.
Nerval Teatro ha portato a San Sepolcro, come è uso nel suo alveo di ricerca, uno spettacolo in cui il regista del gruppo, Maurizio Lupinelli, con l’attore portatore di disabilità Carlo De Leonardo, in scena sempre generoso e illuminante, ripercorre situazioni riconoscibili dell’immaginario beckettiano, da “Aspettando Godot” a “Finale di Partita” e “Giorni Felici”. Novelli Estragone e Vladimiro, Maurizio e Carlo si muovono in uno spazio irreale, punteggiato da un albero striminzito, da una buca e un grande tubo da cui escono, simile ad un utero materno. Insieme si immergono nella vita clownescamente, cercando risposte a domande che inesorabilmente non ne hanno. 

“F.U.S. Fottuti, Utopisti e Sognatori” del Teatro dei Borgia diretti da Gianpiero Borgia, insieme a Teresa Acerbis, Raffaele Braia, Marco de Francesca, Serena di Gregorio e Sabino Rociola, nel bellissimo Chiostro di San Francesco, ci indica, sorridendo ma con una rabbia che piano piano si riversa sul pubblico, tutta la fatica che un artista, al di là della scena, deve fare per essere riconosciuto socialmente.
Tra scartoffie sempre più ingombranti, appuntamenti perentori a cui far fronte, tempo sottratto all’invenzione teatrale, “F.U.S. Fottuti, Utopisti e Sognatori” mostra chiaramente come l’arte scenica ne venga mortificata, diventando mero apparato, quasi insignificante.
Solo alla fine, un moto di orgoglio sembra attraversare tutti gli artisti in scena, quello intriso di ardente consapevolezza di fare un mestiere, un’arte, di cui bisogna al di là di tutto essere fieri.
Uno spettacolo necessario, che indaga anche una piaga latente del sistema teatrale italiano, spesso ignoto al grande pubblico, facendola diventare esemplificativa della strenua volontà di portare avanti un’arte unica nel suo genere, sempre protratta al cambiamento di noi stessi sia come artisti sia come pubblico.

Tra danza e teatro si muove il curiosissimo “Welkome” del gruppo francese Les Vagues, diretto da Joachim Maudet. Qui tutte le arti sceniche, proposte dai tre performer, si mescolano in un caleidoscopio di situazioni e parole che hanno in una pratica raramente sperimentata, il ventriloquio, il loro centro focale. Sono a parlare con noi i danzatori in scena che colloquiano mentre impercettibilmente si muovono in scena?  Ma chi parla dei tre? E quale misterioso linguaggio esprimono prima di lasciarsi andare in una danza sfrenata? Una coreografia davvero intrigante e di natura inaspettata.

C’è posto, infine, anche per una performance che si svolge in una roulotte per sette spettatori alla volta, “Officina oceanografica sentimentale”, della compagnia Samovar, che compone, formando un incantevole teatrino in miniatura, un piccolo grazioso omaggio al mare, in cui Luca Salata, da vero artigiano creatore, inventa un variegato mondo marino attraverso oggetti di uso normale che si trasformano in pesci, conchiglie e onde. E a noi, stretti stretti nella nostra minuscola platea, pare veramente di essere in una specie di sottomarino ad esplorare l’oceano infinito con tutte le sue meraviglie.

Come abbiamo visto, anche se solo parzialmente attraverso un rapido volo d’uccello, per quest’edizione di Kilowatt è parso azzeccatissimo il titolo che ne hanno dato Luca Ricci e Lucia Franchi, sottolineando la molteplicità di modi con cui le arti sceniche si mostrano al pubblico, spettatori che – dobbiamo sottolineare – hanno sempre partecipato numerosissimi e con entusiasmo alle proposte disseminate negli spazi della bellissima città toscana.

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