Koreja, il canto libero di Alessandro Leogrande

Alessandro (ph: Eduardo De Matteis)
Alessandro (ph: Eduardo De Matteis)

Gherzi e Saccomanno all’Elfo omaggiano lo scrittore tarantino a sei anni dalla morte

Il 26 novembre di sei anni fa moriva Alessandro Leogrande (1977-2017). Non tutti conoscono lo scrittore e giornalista tarantino di nascita, romano d’adozione, scomparso giovanissimo di ritorno dall’ennesima inchiesta. È pertanto encomiabile il tributo dei salentini Koreja. Che in coproduzione con Ura Teatro, hanno messo in scena all’Elfo Puccini di Milano lo spettacolo “Alessandro. Un canto per la vita e le opere di Alessandro Leogrande”.
Scriveva Leogrande che «le rivoluzioni si fanno per i morti, per i perdenti». È una cosa cui non pensiamo, proiettati come siamo verso la vita, la materia e un impegno politico che – anche se votato al bene comune – rischia di ammantarsi di narcisismo.

Gianluigi Gherzi e Fabrizio Saccomanno, autori di “Alessandro”, omaggiano uno scrittore militante. Leogrande dava un valore alto alla parola “inchiesta”. Si documentava con ogni genere di libri: letteratura, storia, sociologia, filosofia. Si recava direttamente nei luoghi. Consumava la suola delle scarpe. Aguzzava sguardo e orecchie. Incontrava persone: operai dell’Ilva, vittime del caporalato, immigrati, sindacalisti. Poneva le domande giuste. Ascoltava le risposte fino alla fine. Rilanciava con nuove domande. Sapeva che dietro ogni verità plateale c’è una verità nascosta, e di questa andava in cerca. Quando era certo di sapere abbastanza di una cosa, la guardava da un’altra angolazione. Era umile, diversamente da chi ha in tasca risposte preconfezionate. Solo dopo iniziava il racconto. Frasi brevi, taglienti. Pochi aggettivi, zero avverbi. Ogni parola, una staffilata.

Gianluigi Gherzi e Fabrizio Saccomanno sono pervasi dallo stesso culto della parola. Che in scena diventa preghiera e denuncia. Pagine e pagine di Leogrande sono condensate in un’ora di monologo. Il risultato è esplosivo.
La narrazione procede secondo un ordine biografico e sentimentale, oltre che logico e cronologico. Si parte con Taranto, madrepatria di Leogrande: la sua area industriale smisurata, le esalazioni tossiche, il dissidio tra lavoro e salute, i morti di cancro, le scuole dismesse. E una distanza siderale tra periferia e cuore pulsante della città.
In scena, sguardi e gesti di Saccomanno si animano di coraggio e dolore. È un Sud diverso da quello oleografico. È una terra violata, dove muoiono anche i diritti umani. È il girone infernale della campagna dauna, dove gli extracomunitari e i nuovi comunitari (polacchi, romeni, bulgari, slovacchi, lituani) raccolgono curvi sotto il sole pomodori dalla mattina alla sera. Dove chi si lavora viene schiavizzato, chi si ribella segregato. Dove un immigrato in fuga dalla miseria viaggia verso nuovi e più subdoli razzismi.
Eppure ci sono isole d’umanità in questa drammaturgia. C’è la storia di Incoronata, vedova di Orta Nova che ritira dalla posta i pochi risparmi per commissionare una lapide per un immigrato morto senza nome. C’è la storia di Costantino, che salva naufraghi al largo di Lampedusa. C’è la lettera scritta da Leogrande al papa, per aggiungere la propria voce all’urlo contro la “globalizzazione dell’indifferenza”.
Soprattutto, c’è l’arte. C’è la bellezza di un sipario che si srotola ad accogliere l’immagine del “Martirio di San Matteo”, custodito a San Luigi dei Francesi. Nel dipinto di Caravaggio lo sguardo dell’autore si rivolge all’aguzzino pronto a infierire sul santo. Ci confrontiamo così con la violenza prima che accada. Per misurare la nostra debolezza di fronte al male. Per uscire dal coro di chi volta le spalle ai vinti.
Saccomanno impasta sudore e sangue. Viaggia negli inferi, negli abissi del mare. Ogni parola è uno schiaffo, ma anche un monito alla fratellanza.
Le luci scolpiscono occhi incavati e mani intrecciate. Lo spettatore non può sottrarsi. L’emozione si taglia con il coltello. A tratti diventa angoscia.
Un sovraccarico simile è una rarità a teatro. C’è il rischio di soffocare. Ma il mestiere dell’artista dosa ritmi e pause. Lo spaesamento si dilegua, crea spiragli per la poesia.

“Alessandro” è apnea. Ma è anche respiro. I polmoni sono le cantanti Barbara Petti, Emanuela Pisicchio, Maria Rosaria Ponzetta, Andjelka Vulic. Le loro voci a cappella sono intrise di spiritualità. La loro performance è anche visiva. La danza sublima nella risposta onirica dei corpi. Le coreografie disegnano derive e immersioni. Il canto muto a labbra strette, ispirato a Bob Dylan (“When the ship comes in”), deflagra in una nenia portoghese. Poi una ninna nanna modugnese. Fino alla stordente coralità polifonica di Arvo Pärt. L’epilogo è un canto eritreo lontano, che si avvicina e assume la solidità della roccia.
Un lavoro senza retorica e senza sussiego. La forza dell’immediatezza traboccante verità. Una prosa caleidoscopica. Infine, nel segno di Alessandro Leogrande, il rinnovato sodalizio tra il milanese Gigi Gherzi e una compagnia pugliese. Che diventa ipnosi e denuncia.

Alessandro. Un canto per la vita e le opere di Alessandro Leogrande
di Gianluigi Gherzi e Fabrizio Saccomanno
con Fabrizio Saccomanno, Barbara Petti, Emanuela Pisicchio, Maria Rosaria Ponzetta, Andjelka Vulic
regia Fabrizio Saccomanno
cura del progetto e consulenza artistica Salvatore Tramacere
tecnici Mario Daniele, Alessandro Cardinale
coproduzione Koreja, Ura Teatro
si ringrazia Feltrinelli Editore
grazie a Cecilia Bartoli, Mario Desiati, Emiliano Morreale e Laura Scorrano
un ringraziamento speciale a Maria Leogrande

durata: 1 h
applausi del pubblico: 4’

Visto a Milano, Teatro Elfo Puccini, il 24 novembre 2023

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