“…naturalmente dannunziano, ancor più naturalmente disgustato dal dannunzianesimo, egli fu il primo che riuscisse (com’era necessario e come probabilmente lo fu anche dopo di lui) ad attraversare D’Annunzio per approdare ad un territorio suo”.
Queste parole celeberrime, che il grande Montale spendeva per Gozzano, sembrano adattarsi con una certa curiosissima stranezza anche all’ultima prova registica di Leonardo Lidi (vincitore nel 2017 del bando della Biennale per registi under 30), presentata al 48° Festival Internazionale della Biennale di Venezia, sulla tragedia scritta dal vate nel 1896: “La città morta”, inscenata in una scenografia dal cielo stereotipato, quasi da videogame, in un rettangolo che corre sulla parte alta delle tre pareti di fondo, subito sotto al quale c’è invece una grande impalcatura in ferro con delle sedute di un rosso acceso che si capisce subito essere, abbinata ai costumi scelti da Aurora Damanti, la trasposizione teatrale degli spalti sui quali si giocano le summer nights di John Travolta, nel più che celebre film musicale “Grease”, diretto da Randal Kleiser nel 1978.
Tutto l’acuto complesso di scelte per cui Lidi ha optato nel recupero del testo si lascia in fondo caratterizzare, inaspettatamente, non altro che da un gusto – ora vedremo come – spiccatamente archeologico, contraddetto fino all’intima decostruzione di sé stesso, e capace quindi di aprire nuove prospettive possibili sulla categoria stessa messa in questione.
La prima presenza marcatamente ‘archeologica’ è innanzitutto quella che proviene dall’originale dannunziano, seguito – quantomeno in termini di contenuto – in modo piuttosto scrupoloso, con quel Leonardo archeologo innamorato che, nel testo, si concretizza in battute sempre prossime ad un modo di guardare alla classicità che è quello di esempi dominanti – almeno nei limiti di un certo periodo storico pre-contemporaneo – come Johann Joachim Winckelmann, ma colorato, come è ovvio in sede dannunziana, dalle influenze necessarie della tradizione poetica di area britannica spesso definita “cimiteriale”, e mediata al panorama italiano sopra ogni altra cosa dalla rilettura dei “Sepolcri” foscoliani.
Per chi alza quindi lo sguardo agli stucchi fin de siècle del Teatro Goldoni di Venezia, in alcuni momenti a recitazione sentita con l’ottima Giuliana Vigogna nei panni di Biancamaria, sembra davvero, grazie alla conservatività contenutistica, di essere in un altro tempo, giunti in platea per ascoltare da vicino la voce di Eleonora Duse, che nel 1901, alla prima al Teatro Lirico di Milano prese, però, i panni di Anna.
Anna, l’assente distopica del lavoro di Lidi, che fa recitare le sue battute ad un Leonardo portato all’estremo della sua pazzia: uno schizofrenico con parrucca ed occhiali ad occhi fissi a stampa, che consegna da parte dello stupefacente Christian La Rosa una prova attoriale tanto estrema quanto intensa, memorabile e di alto valore.
Probabilmente è proprio la scelta della modalità attoriale a lui impartita da Lidi a mettere più in questione il gusto dannunziano, quando le battute sono iper-velocizzate, o quando vengono messe in ridicolo grazie ad una gestualità esasperata, ad esempio da “Urlo” di Munch, che fa davvero ridere con gusto ed intelligenza.
Un bel modo di far pensare al fatto che certo patetismo può essere oggi solo patetico e nient’altro, sempre sgonfiabile e da mettere in ridicolo; ma l’attivazione riflessiva è in fondo ancora più alta, poiché Lidi fa capire che l’archeologia alta dannunziana può entrare in collisione con un’altra archeologia, che scava invece dal mondo della cultura di massa, da quel “Grease” che è ormai oggi anch’esso totalmente fuori tempo.
Va sottolineato il fatto che proprio l’inaspettatissima impostazione scenica, la scelta allineata dei costumi, e pure le presenze musicali parallele, che inseriscono alcune canzoni cantate in stile musical spaziando da Bobby Solo a Caterina Caselli, sono probabilmente la dimostrazione più che compiuta di quella tendenza riconoscibile in Lidi ad affermare il proprio processo creativo sulla base di una serie di idee ed intuizioni, lo si dica, francamente geniali: un complesso creativo più che convincente, che basta in sé alla riuscita dello spettacolo, su cui però il regista non sembra poi essere abbastanza innovativo nel dispiegarsi di un processo che è sentitamente complesso. Sempre non a caso l’evento scenico, oltre ad essere necessariamente plurimultimediale, dura nel tempo: con questo aspetto Lidi sembra non venire troppo a patti, consegnando alle sue intuizioni un carattere statico, che evolve troppo poco per definire il suo lavoro un masterpiece.
Dopo 20 minuti si ha insomma già voglia di applaudire, perchè l’intenzione registica è davvero ottima ed intelligente, ma rischia il confino nella sua peculiare immanenza, e da lì non può che girare su se stessa, come alterna infatti parti di testo alle quattro canzoni dagli anni ‘60, inserite a mo’ di intermezzi.
Elementi questi che, sommati, ci hanno fatto pensare non poco a quanto molto dell’applauso stesse forse andando ad un testo e ad un gusto, quello altisonante e dannunziano, che ancora non smettiamo di sentire inspiegabilmente vicino ed ammaliante.
La città morta
Da: Gabriele D’Annunzio
Adattamento e regia: Leonardo Lidi
Con: Christian La Rosa, Mario Pirrello, Giuliana Vigogna
Scene e luci: Nicolas Bovey
Costumi: Aurora Damanti
Sound design: Dario Felli
Arrangiamenti: Dario Felli, Paolo Casali
Assistente alla regia: Sanida Mujakovic
Elettricista e fonico: Lorenzo Maugeri
Direzione di scena: Guido Pastorino
Produzione: Teatro Stabile dell’Umbria, La Corte Ospitale
durata: 1h 20′
Visto a Venezia, Teatro Goldoni, il 22 settembre 2020
Prima assoluta