La classe: Vincenzo Manna e Giuseppe Marini su adolescenza e problemi sociali

La classe (photo: Federico Riva)
La classe (photo: Federico Riva)

E’ assai difficile parlare, soprattutto in teatro (il cinema ci ha provato con successo diverse volte con “Entre les murs” di Laurent Cantet, “L’onda” di Dennis Gansel, “Detachment” di Tony Kaye… solo per citare alcuni) del disagio sociale che caratterizza la nostra epoca attraverso gli occhi di una classe scolastica.

Difficile perché, soprattutto in teatro, lo stereotipo è lì, sempre dietro l’angolo, a vanificare la sfaccettata radiografia di una generazione che si affaccia al mondo adulto, e da cui spesso viene respinta.

Ci ha provato con esiti nel complesso soddisfacenti Vincenzo Manna, autore e regista che già conoscevamo come vincitore del Premio Scenario Infanzia, che per Accademia Perduta Romagna Teatri, Goldenart Production e Società per Attori, ha scritto, dopo una vasta ricognizione sul campo (una ricerca condotta da Tecnè basata su circa 2.000 interviste a giovani tra i 16 e i 19 anni), “La Classe”, per la regia di Giuseppe Marini, che abbiamo visto al Teatro dell’Elfo di Milano in compagnia di una platea di studenti assai partecipi.

Nello spettacolo la “nostra” classe è posta in un non-luogo, anche se molti riferimenti ci portano a Calais, nei pressi di un centro di “accoglienza” per rifugiati, così pericoloso e incontrollabile, nella sua forse presunta ferocia, da essere chiamato lo Zoo. Ma anche la classe ci appare per certi versi come uno zoo: un microcosmo, spesso ostile, rappresentativo delle tante varietà di etnie, religioni e colori che contraddistinguono il mondo.

Nicolas è il capo branco, un animale feroce che non viene mai a patti con nessuno, urla sempre, minacciando chi gli sta davanti, anche con il coltello. Poi c’è Arianna, la sua ragazza, truccata in modo vistoso, seduta all’ultimo banco, dove consuma una presenza apparentemente abulica; Maisa è invece una ragazza musulmana insicura, che ha paura di tutto e di tutti. Di Vasile, lo zingaro ribelle, intuiamo un briciolo di responsabilità per cambiare la sua situazione; il nero Talib, spacciatore seriale, ci pare il più responsabile del gruppo nel voler provare ad uscire dal pantano in cui è caduto; infine l’ebrea Petra, forse l’unica che vede da sola davanti a sé un orizzonte veramente sgombro da nubi minacciose.

Siamo di fronte a sei adolescenti alle soglie dell’adultità alla ricerca di un futuro più certo, ma che vedono ancora in maniera spesso respingente. Sono sei esistenze che reagiscono in modo differente ad un mondo che, escludendoli, li ha resi così come sono, e che vedono nei componenti del centro di accoglienza dei nemici da combattere.
A tenere a bada tutti loro, cercando un metodo per interessarli alla scuola, c’è il professore 38enne Albert, docente precario di Storia, al suo primo incarico, anche lui ex rifugiato. Albert, nelle quattro settimane che precedono l’arrivo del Natale, dovrà cercare di far maturare i crediti necessari per il recupero dei sei studenti, sospesi per motivi disciplinari.

Ad introdurci in questo microcosmo è la figura del preside, che non vuole impicci, ma soprattutto desidera che i ragazzi firmino il foglio delle presenze. Dopo un inizio assai difficile, l’occasione per il riscatto è rappresentato da un bando europeo rivolto alle scuole superiori sul tema de “I giovani e gli adolescenti vittime dell’Olocausto”.
E’ Talib che, in segreto accordo con il professore, lancia l’idea, facendo baluginare ai compagni il miraggio dei 70.000 euro messi in palio dal bando, offrendo loro un dossier segreto e inedito che testimonia le torture cui sono stati sottoposti i rifugiati, vittime dell’Olocausto contemporaneo.

Sarà forse la spinta giusta per una nuova alba? “La classe” non ce lo dice, non offre soluzioni confortanti, anche se alla fine perfino il preside, utilizzando la metafora delle galline, ci invita a credere che, passo dopo passo, anche questi ragazzi, con tutte le loro fragilità, potrebbero arrivare sulla luna.

Nella semplice scena fissa di Alessandro Chiti, coperta da fogli e popolata da mobili obsoleti (banchi, una cattedra, la lavagna, l’appendiabiti e un televisore a tubo catodico), Brenno Placido, Edoardo Frullini, Valentina Carli, Haroun Fall, Cecilia D’Amico e Giulia Paoletti danno spessore – il più delle volte in modo credibile – ai sei ragazzi; al loro fianco Andrea Paolotti come insegnante e Claudio Casadio come preside li guardano muoversi da vicino: con giusta adesione il primo, con la lente dell’entomologo il secondo.

Certo, qua e là lo spettacolo rischia di muoversi su binari in qualche modo prestabiliti nel solco di un’indagine sociale dimostrativa, tuttavia “La classe” resta alla fine una prova convincente di come il teatro possa indagare con efficacia i nervi scoperti della nostra società, vista con gli occhi di chi domani dovrebbe farne parte in modo consapevole.

La classe
di Vincenzo Manna
regia Giuseppe Marini
scene Alessandro Chiti
costumi Laura Fantuzzo
musiche Paolo Coletta
light designer Javier Delle Monache
con Claudio Casadio, Andrea Paolotti, Brenno Placido, Edoardo Frullini, Valentina Carli, Haroun Fall, Cecilia D’Amico, Giulia Paoletti
produzione Accademia perduta Romagna Teatri, Società per attori, Goldenart production

durata: 1h 50′

Visto a Milano, Teatro Elfo Puccini, il 1° febbraio 2019

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