In scena fino al 12 novembre al Teatro Bellini di Napoli per poi andare a Torino
Dopo l’interruzione delle recite a causa della pandemia, che non ha comunque impedito allo spettacolo di vincere numerosi premi, è finalmente ritornato a Napoli “La Cupa”, fabbula di un omo che divinne un albero, l’ultima creazione di Mimmo Borrelli, uno dei cantori più intimamente collegati a questa conturbante e contraddittoria città.
L’abbiamo vista al Teatro Bellini, che lo produce, letteralmente sventrato per l’occasione in modo da poter riverberare un luogo assai particolare, in cui si svolgono le vicende dello spettacolo, in scena fino al 12 novembre.
Siamo stati infatti catapultati in una buca profonda, una specie di grotta-miniera, sterrata e fangosa, una vera e propria cava infernale in cui si muove un’umanità sbrecciata, simbolo di un mondo fuori dal mondo, ma che forse molto gli assomiglia, popolato da miseria e aberrazione.
Qui i protagonisti di questa storia – due famiglie di scavatori di tufo – si esprimono in un napoletano in rima, arcaico e sfuggente, carico di simbologie e metafore, che a turno innalzano e abbassano il tono del linguaggio, sempre di grande forza espressiva, spesso urlato, immesso in cantilene e nenie, accompagnato da un musicista fuori campo (Antonio Della Ragione) che sottolinea in modo stupefacente ogni atmosfera ed emozione con strumenti sempre diversi.
I cavatori, dediti al loro faticoso lavoro, paiono topi, esseri primitivi e primordiali, che spesso corrono, strisciano, emettendo suoni gutturali. I protagonisti della storia, mossi da una parola sempre musicale, si muovono – vestiti dagli espressivi costumi di Enzo Pirozzi – nelle scene oscure e di grande suggestione di Luigi Ferrino, illuminate da Cesare Accetta in modo antinaturalista, simili ad antichi guerrieri di un regno fuori dal mondo, dal sapore sacrale, intrisi di una forza primordiale che li rende epici.
Tre ore di spettacolo conturbante, diviso in venti scene denominate non a caso “vanghi”, in cui la parola regna sovrana, una parola a volte per noi non comprensibile, ma che vive attraverso il proprio ritmo espressivo ed incalzante, che la mimica degli attori riconsegna fervida di senso allo spettatore, immettendolo in un mondo sconosciuto, terribile, che il teatro rende ammaliante.
Gli interpreti si muovono dunque in questa cava, un luogo urticante, da esplorare per capire fino a dove può spingersi l’essere umano. Un essere che, per uscire dalla sua condizione di miseria e sudditanza, per fuggire dal destino che gli è stato imposto, è pronto a qualsiasi cosa.
Sul palco si staglia di quando in quando una palla gigante, forse la Terra, che nasconde questo mondo nascosto sotto di essa.
La storia che seguiamo è quella della cieca Maria delle papere e di Vicienzo Mussasciutto, figli rispettivamente di due anime dal nome espressivamente pregnante, che in qualche modo governano quel mondo: Giosefatte Nzamamorte, a cui non rimangono che pochi giorni di vita, e Tummasino Scippasalute.
Al primo non è restata, dopo la violenta perdita della moglie e dei figli da lui stesso forse causata, solamente che Maria, a cui dice per vergogna di essere suo fratello; il secondo ha cosparso di nascoste malefatte una vita piena di orrori, avendo in odio la famiglia di ‘Nzamorte, che ha sottratto illegalmente a suo padre la proprietà della cava. Una cava che cela rifiuti tossici e l’orrore di cadaveri di bambini destinati al mercato degli organi.
In questo luogo, nella notte di Sant’Antonio (quando, secondo un’antica leggenda, gli animali possono parlare agli uomini ma rischiando in cambio sfortune future) fa ritorno Innocente Crescenzo, l’unico che si esprime in italiano, e che tenta di immettere un po’ di luce in quel buio, lui che è il figlio creduto morto di Giosefatte.
Fanno da corollario a questi personaggi altre anime come Cenzina, la moglie di Tommasino, la “papera” di Maria, che ricorda molto la balia di Giulietta, e un coro di Cavatori.
È un mondo tra reale e magico quello che abbiamo davanti, il mondo prediletto da Borrelli, quello dell’immaginario dei Monti Flegrei, con fiori che portano il malocchio, sacrifici di poveri colombi, essenze magiche, pozioni d’amore e animali dal carattere sacro, fautori della ineluttabilità del destino, un destino che porterà al suicidio Maria, violata contro la sua volontà anzi tempo, e alla morte di Tummasino e Cenzina. Ma ‘Nzamorte e Innocente si ritroveranno come padre e figlio, ed il padre, dopo aver messo in guardia il figlio sulla cattiveria del mondo, potrà finalmente morire, diventando quell’albero che il figlio si preoccuperà sempre di innaffiare.
Insieme al regista nella parte di ‘Nzamorte, in scena davvero ammirevoli tutti gli interpreti: Maurizio Azzurro, Dario Barbato, Gaetano Colella, Veronica D’Elia, Rossella De Martino (bravissima ed espressiva a condurre spesso i canti), Renato De Simone, Gennaro Di Colandrea, Paolo Fabozzo, Enzo Gaito, Geremia Longobardo, Stefano Miglio e Roberta Misticone.
Lo spettacolo verrà programmato anche a Torino (dal 16 al 20 novembre) e a Milano, a maggio 2023. Da non perdere.
LA CUPA. Fabbula di un omo che divenne un albero
versi, canti, drammaturgia e regia Mimmo Borrelli
con Maurizio Azzurro, Dario Barbato, Mimmo Borrelli, Gaetano Colella, Veronica D’Elia, Rossella De Martino, Renato De Simone, Gennaro Di Colandrea, Paolo Fabozzo, Enzo Gaito, Geremia Longobardo, Stefano Miglio, Roberta Misticone
scene Luigi Ferrigno
costumi Enzo Pirozzi
luci Cesare Accetta
musiche, ambientazioni sonore eseguite dal vivo Antonio Della Ragione
Fondazione Teatro di Napoli – Teatro Bellini
durata: 3 h
Visto a Napoli, Teatro Bellini, il 19 ottobre 2022
Spettacolo meraviglioso
Sono Dario Barbato e faccio parte del cast. Grazie a nome di tutta la compagnia.
Magnifico spettacolo
Sono Dario Barbato e faccio parte del cast. Grazie a nome di tutta la compagnia.
Spettacolo meraviglioso!
Sono Dario Barbato e faccio parte del cast. Grazie a nome di tutta la compagnia.