La Favola Bella: il dono di libertà di Voci Erranti

La Favola Bella (photo: Aldo Lanfranco - Circolo fotografico Imago di Savigliano)|I detenuti protagonisti de La Favola Bella
La Favola Bella (photo: Aldo Lanfranco - Circolo fotografico Imago di Savigliano)|I detenuti protagonisti de La Favola Bella
La Favola Bella (photo: Aldo Lanfranco - Circolo fotografico Imago di Savigliano)
La Favola Bella (photo: Aldo Lanfranco – Circolo fotografico Imago di Savigliano)

Ed una lupa, che di tutte brame
sembiava carca ne la sua magrezza,
e molte genti fé già viver grame,
questa mi porse tanto di gravezza
con la paura ch’uscia di sua vista,
ch’io perdei la speranza de l’altezza.
(Dante, Inferno, I v. 49-54)

Attorno alla “fame” ruota come compasso il senso di un fare teatro che si chiede “che fine ha fatto quel bel cestino pieno di focacce e delizie” che viene promesso nelle favole, il lieto fine della sazietà, più che dell’abbondanza, ingiustamente non indagato dalle categorie di punizione, lotta o vittoria degli schemi di Propp.

Ed è forse proprio il sentimento di fame che più interroga la Storia, quella maiuscola delle verità apodittiche, e quella dei piccoli uomini, accalcati senza distinzione nell’intellettuale semplificazione terminologica di “vinti”.
“Chi è che scriverebbe mai una storia senza fine? E che storia è una storia se non se ne ricorda più l’inizio?”: sono interrogativi che dal palco riecheggiano nella cassa toracica e si depositano come sabbia sul fondo.

L’acustica della stanza-teatro che ci accoglie, d’altra parte, nel cortile della Casa di Reclusione Morandi di Saluzzo, non permette che risuonino con altrettanta prepotenza.
Eppure “La Favola Bella”, messa in scena in questi giorni d’autunno e in più repliche dai detenuti e dall’associazione Voci Erranti, onlus responsabile dal 2002 del laboratorio teatrale all’interno del carcere di Saluzzo, irrompe come torrente in piena in quegli spazi di reclusione, che Krapp aveva già visitato nel 2008 in occasione dello spettacolo “Van Gogh. Il suicidato della società“.

“In carcere si sta al mondo ma non si vive nessuna vita” si legge tra le ultime note diaristiche di Carmelo Musumeci, promotore da anni di una campagna di sensibilizzazione contro il “fine pena mai”, stesso esito della sentenza che lo rende ergastolano del carcere di Padova da più di trent’anni e, per sopravvivenza, scrittore.

“La Favola Bella” riporta proprio a quelle vere parole, sintesi inconfutabili della drammaticità della cella, eppure le stravolge sospendendole, facendosi vitale surrogato d’amnistia per tempi troppo brevi, ma sufficienti, forse, per un diverso respiro.

E’ il teatro che, sovversivo, fa riaffiorare e riemergere l’uomo nudo, gonfio della sua biografia, spogliato per qualche istante dell’identità coatta che s’impone attraverso il passaggio obbligato alla foto segnaletica; ed è infatti di quell’uomo che si parla in queste righe, di coloro che sulla scena e fuori da essa hanno dato vita alla Vita, la “Favola Bella” che ci è stata raccontata dal canto corale di toraci quasi insolenti per tanta presenza: una scenografia minimale, fatta di corpi compatti nella penombra, piedi scalzi e gilet in pelo nero.

Una voce di ragazzo si isola a narrare in spagnolo la storia di Caperucita Roja, Cappuccetto Rosso, snocciolando una nènia lenta ed innocente, meccanica, su illustrazioni fiabesche che scorrono sullo sfondo.
Proprio contro la dolcezza meccanica ed illusoria della narrazione della favola, i cui lieto fine sono i retaggi di un qualche senso di giustizia e verità cui ricorriamo per edulcorare o ingannare il reale, s’innesta una protesta, dapprima ironica poi sempre più drammatica: chi è quella madre che lascerebbe andare da sola, nel bosco, una ragazzina con un “cestino pieno di focacce e delizie”? Qual è la colpevolezza del lupo? Ed il lupo è colpevole per natura?
Homo homini lupus, si diceva in altre sedi, oggi discussioni filtrate dallo Stato di Diritto.

I topoi classici vengono destrutturati per parlare del singolare biografico di ciascuno, resi maschere narrative per esplicitare le storie dei protagonisti, quelli veri, delle favole a fine meno lieto che parlano di spaccio, furti, permessi di soggiorno non rinnovati e di qualcosa andato storto: la sospensione scenica permette di narrarsi senza implicazioni morali, trasformarsi in lupi affamati o danteschi, nonne malate, bambine ingenue, cacciatori, eppure non essere nessuno di essi, a dimostrazione che la vulnerabilità dell’umano non possiede nulla di semplice.

La lingua è una babele di accenti, inflessioni, cadenze riflesse nei tratti somatici: a ciascuno la sua terra, eppure lupi di uno stesso branco, attori di una stessa compagnia, solidali agli stessi morsi di fame che fanno desiderare cestini appesi al soffitto nel centro della stanza, pronti a sedurre senza che appaghino.

Tra scene di lotta, banchetti voraci, fughe e rincorse, il linguaggio del corpo, carico di altrettante evidenze biografiche, sgomita negli spazi lasciati vuoti dalla parola: è la presenza a sé stessi di questi lupi sulla scena che arriva potente come uno schiaffo.

Perchè attori non sono di professione, ma la loro sincerità spontanea, la fame che li muove, la rabbia del desiderio per le libertà oggi negate, l’accettazione di uno status d’eccezione ed isolamento, rendono il teatro dei loro gesti, movimenti e sguardi, un linguaggio vivo, come vive e attuali le parole di Dante sulle loro bocche.

I detenuti protagonisti de La Favola Bella
I detenuti protagonisti de La Favola Bella

La complessità emotiva che emerge attraverso “La Favola Bella” è quella di un appello all’ironia, al dissacrante, al commovente, allo sfrontato e al sommesso: declinazioni cui i nervi delle braccia e dei colli scoperti danno forma concreta e repentina a sfregio di ogni possibile esercizio di stile retorico o d’immedesimazione drammatica.

Nell’ultimo quadro si schierano in fila sul fondo della scena con un drappo rosso sulla spalla: ricordano i comandanti dell’antica Roma nella pratica della Devotio, durante la quale i capi s’immolavano agli dei Mani, le anime dei defunti, per la salvezza dei loro uomini e la vittoria dell’esercito.
E’ un’immagine che schiuderebbe ogni allegoria sul sacrificio e la collettività, ma le ultime battute rivolte al perdono laico come salvezza zittiscono il verbo e nascondono i volti dietro gli stessi teli sanguigni, finché le luci non si riaccendono e ce ne riportano l’imbarazzo felice di sorrisi miti.

L’occhio dello spettatore non è un occhio neutro, e non lo è a maggior ragione se consapevole di una condizione di libertà che lo rende antitetico ad uno spazio che “teatro” in senso stretto (edilizio) non è.
Non lo è neppure il mio, che per la prima volta varca la soglia di una casa di pena.
Mi è necessaria pertanto l’eccezione di una parentesi soggettiva ed un’aggiunta su come la lucidità del lavoro di Voci Erranti si manifesti pienamente nell’antiretorica mantenuta fino all’ultimo, un compito di mediazione tra equilibri e disequilibri molteplici che emerge in tutta la sua delicatezza.

Diretta verso l’uscita, riattraverso il cortile del carcere e penso al fossato culturale che permette all’istituzione carceraria di esistere per separazione e per separare, setacciare il Bene e il Male, tutelare il primo dalla contaminazione virale del secondo.
E grazie a quei lupi alle prese con la propria coscienza, la Storia, i ricordi, gli errori commessi o con le sconfitte causate dall’arroganza burocratica, ma affatto pretenziosi di sminuire colpe o violenze, mi sento più una simile, che una diversa, assottigliatosi il confine della mia differenza fino a ridursi ad una condizione giuridica che pure determina tutto, l’irriducibile distanza tra la loro solitudine sorvegliata e la mia libertà.

Persa la “speranza de l’altezza” alle soglie della selva oscura, affrontate le paure del bosco per le quali “facciamo teatro”, dicono loro, è sempre Dante che slega la lingua e mi ricorda di quel pertugio tondo, il teatro (?), attraverso il quale si chiude l’Inferno dantesco.
Che sia dono di libertà il suo ultimo verso: “E quindi uscimmo a riveder le stelle”.

La Favola Bella
Progetto a cura di: Voci Erranti Onlus
Scrittura e regia: Grazia Isoardi
Coreografia: Marco Mucaria
Luci: Cristian Perria
Tecnico luci: Radouane
Tecnico di scena: Abdel
Costumi: Anastasia Pirogova
Fotografia: Paolo Ciaberta
Attori: Salah, Luciano, Geovanny, Massimiliano, Stefano, Nabil, Oscar, Abdelilah, Alberto, Mourad, Daniel, Andrea
Segreteria: Cristina Pedratscher, Ananstasia Pirogova, Grazia Oggero

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