Cita un libello del 1938, Carlo Quartucci iniziando il suo intervento all’incontro romano “Beckett, una deviazione italiana: memorie, idee, tributi”.
Ed è nato proprio nel 1938 Quartucci, maestro, regista, scenografo, pensatore che, con l’attrice Carla Tatò, ha innovato il modo di affrontare Samuel Beckett in Italia.
“Quando ho fatto Beckett nel 1959 cosa avevo in testa? – ci racconta – Avevo il “Quadrato bianco” di Malevič, la geometria di Buster Keaton, la musicalità di un Weber, frammenti musicali su cui Beckett ha viaggiato… Non è solo un drammaturgo classicamente inteso: era come uno scrittore della parola e della vita, uscito fuori da Giacometti, creando grandi figure di vita dentro allo splendore della lingua dell’arte, che è catastrofica, ma anche meravigliosa. Come i pittori contemporanei nascono uscendo dal quadro”. Tant’è che scopriamo, sempre da Quartucci, che Beckett invitò i propri attori a “recitare come la musica delle opere di Kandinskij”…
Occasione emozionante e piena di suggestioni, questa che ha fatto da corollario di lusso alla mostra “Prigionie (in)visibili – il teatro di Samuel Beckett e il mondo contemporaneo“, di cui abbiamo parlato nelle settimane scorse. Terzo viaggio di approfondimento, come ci informa il moderatore Paolo Ruffini, alla Casa dei Teatri di Roma in occasione della mostra.
Ma perché citare Giacometti? “L’albero di “Aspettando Godot” è stato fatto da Giacometti. E più lo faceva, più Beckett gli chiedeva di togliere qualcosa…” ci informa il professor Dario Evola, cattedra di estetica all’Accademia di Belle Arti di Roma. Il filo del discorso gli viene consegnato subito dopo le presentazioni di rito di Ruffini, che apre le danze affermando che Beckett “è un grimaldello, un passe-partout: in quanto filosofo della scena, ritorna a portare al centro la coscienza dell’individuo contemporaneo”; e dopo l’introduzione di senso del curatore di origine giapponese Yosuke Taki, ormai da anni in Italia, di cui vi abbiamo già parlato.
Affrontare quindi, accogliere di nuovo la parola e l’opera di Beckett, profondamente contemporaneo in questo mondo, in cui abbiamo “delegato totalmente alla macchina i nostri rapporti, i nostri affetti”, come prosegue Evola.
“Beckett nasce nel 1906, quando muore Cezanne, quando arriva la seconda teoria della relatività di Einstein, e viene formulata la teoria dei sogni di Freud. Quando inizia la modernità del Novecento”.
“Siamo negli anni Cinquanta. L’opera di Beckett va in scena dopo Auschwitz e Hiroshima, dopo la seconda guerra mondiale. Del resto che cos’è protagonista di Krapp? Il registratore geloso. Il magnetofono, quell’oggetto magico che entrava nella società… E cos’è al centro del quadro “Just what is it that makes today’s homes so different, so appealing?” (Che cos’è che rende così belle e così affascinanti le nostre case?) del pittore Richard Hamilton, precursore della pop-art a Londra? Il magnetofono. Beckett ha profetizzato la sua e la nostra modernità, e funziona ancora oggi per quel problema enorme che è l’indicibilità: le dà forma, come alla possibilità di fallire, ancora, meglio. In questa nostra società del successo e di tutto ciò che è esatto e perfetto, l’unica cosa che possiamo fare è il non fare”.
Ed è quello che fa Giancarlo Cauteruccio, iniziando il suo intervento, con lunghi attimi di silenzio.
Lo fa dopo che Evola ci informa che Beckett arrivò in Italia nel 1953 con la prima rappresentazione a Milano, al Piccolo, di “Aspettando Godot”, regia di Roger Blin.
Nel 1954, ci fu invece la prima italiana in assoluto, regia di Luciano Mondolfo, Vittorio Caprioli a interpretare Pozzo.
In Caprioli e Mondolfo c’è “il cabaret milanese di quegli anni – aggiunge Evola -, un movimento straordinario, che darà vita a Gaber, Jannacci… Diventa Beckett il controcanto della cultura ufficiale brechtiana, incarnata da Giorgio Strehler: Brecht rappresentava la necessità di consolidamento dell’Italia del dopo-guerra”.
Lo metteranno poi in scena nomi come Paolo Poli, Carlo Quartucci, Carla Tatò, Leo De Berardinis, Remondi e Caporossi, Il Carrozzone, Magazzini Criminali, Carlo Cecchi, Cauteruccio… Nel modo che Beppe Bartolucci definì nella sua “Scrittura Scenica”, un nuovo movimento teatrale che agiva “non più dal punto di vista drammaturgico, ma da quello di un’azione coordinata e continua tra corpo-immagine-spazio-tempo”.
“La qualità dell’attesa e del silenzio – apre Cauteruccio, dopo i versi in calabrese dal suo “U juocu sta’ finisciennu” – è l’elemento teatrale più importante, che dimostra che ogni scrittura beckettiana è una vera e propria partitura. Non a caso scrive il suo primo testo per uscire dall’io narrante… Il corpo scompare e rimane l’organo, rimane solo la voce. Così facendo può ripartire dal suo centro, proprio l’Io narrante”.
“Beckett prima di scrivere per il teatro – continua il fondatore di Krypton e Scandicci, a Roma di recente in scena con “Panza, crianza, ricordanza” – ha cercato di capire cos’è il teatro. Lo ha studiato così tanto che nei suoi appunti di regia indica l’evoluzione della luce, che non è più elemento di decoro ma diventa elemento profondo, vivo, che si sviluppa con la voce…”.
“Quando ho messo in scena “Finale di partita” in calabrese – prosegue Cauteruccio – ho chiesto a un grande glottologo di tradurlo, l’inglese John Trumper. L’ho fatto perché volevo portarlo dentro di me, e doveva essere la mia lingua. Io non sono un attore, posso radicare la lingua teatrale attraverso lo strumento della lingua. O meglio quella di mio fratello. Ho avuto la fortuna di partire dalla Calabria a 17 anni per Firenze… È avvenuto così uno spostamento dalla condizione metafisica della scrittura beckettiana a quella di carne: la lingua diventa carnale perché ottiene quell’autenticità nel corpo della rappresentazione. Ho compreso col tempo che Beckett amava profondamente la verità dell’interpretazione”.
E conclude con un affondo: “Sono stato fortunato, sono rimasto fuori dalla schifezza dei Teatri Stabili, dalle schifezze di queste operazioni che coinvolgono gli attori televisivi. E di questo me ne sono fatto una ragione. Beckett mi ha fatto capire la grande importanza esperenziale del fallimento”.
“Non ci può essere altro che autenticità quando si è dentro la lingua della scena, non ci può essere né finzione né falsità – interviene Carla Tatò – Beckett chiama, sputa, lancia, rimbalza. Ci sono entrata grazie a Carlo [Quartucci, ndr], e per la coincidenza della morte di mia madre. Questo aumenta uno stato di sofferenza e della necessità di conforto, e la parola di Beckett porta conforto. Mi interessa molto, perché il suo cerchio magico, nato nella cultura occidentale, inizia ad essere vissuto dal mondo orientale per questa ragione”.
“La lingua della scena, la sua parola, si trova in una partitura ferrea – prosegue Tatò – Carmelo Bene diceva: “Non voglio Beckett, è tutto scritto, che lo faccio a fare. Non c’è invenzione…”. No, c’è un’invenzione straordinaria, che è scoprire il viaggio dentro di sé, per trovare un’autenticità in una partitura vocale dove il silenzio è incluso: sta dentro la pausa, e non è quello che pensiamo noi, ma è l’attesa. Nella posizione attorale il silenzio è il rumore del respiro e del cuore che batte. È un suono pazzesco quello che scorre dentro, e il tempo corre”.
“Beckett viene da un lungo lavoro con un signore che ha detto questa cosa straordinaria: Esiste un’ispirazione mattutina allo stesso modo in cui esiste una coscienza mattutina. Nel momento in cui il vento tace e certi fiori sbocciano, e la crisalide diventa farfalla, e la febbre della follia assale i pazzi. È questo il momento in cui la parola si fa carne”.
Era James Joyce, di cui Beckett fu a lungo segretario.
Nella speranza di incontrarlo ancora, presto, non ci resta che prendere congedo da questo inaspettato viaggio nell’uomo e artista Samuel Beckett con le parole finali di Quartucci, che lo cita così: “Cos’è teatro? Dicono non apre niente, non ha niente da aprire. È nella sua testa. Non mi vedono, non vedono quello che faccio. Non vedono quello che ho. E dicono non apre niente, non ha niente da aprire. È nella sua testa. Non protesto più. Non dico più. Nella mia testa. Non rispondo più. Apro. E richiudo”.