Intabarrato, quasi tutto il viso coperto da una sciarpa e berretto calato in fronte, si crederebbe parte del pubblico – non c’è nemmeno da porselo, il problema.
Ma poi, con uno scivolamento misterioso, attraversa la linea ineffabile che separa la platea dal palco: Giancarlo Cauteruccio è in scena.
Ora sì, lo si riconosce, il suo andare a piccoli passi, il suo essere un punto di antigravità, concentrato ed esplosivo.
Lo spazio scenico è poco più di un luogo fisico atto a dire; lo occupa un comune tavolino da bar con due sedie e qualche parallelepipedo attorno. Tutto è nero, come le quinte che delimitano la superficie del piccolo palco. Su una delle due sedie si sistema Cauteruccio, e vi resterà per quasi tutto il tempo.
Con la trilogia “Panza, Crianza, Ricordanza” l’artista vuole definire l’idea del dialetto calabrese come lingua teatrale, lui che calabrese lo è di nascita, seppur impiantato da decenni a Firenze e direttore del Teatro Studio di Scandicci, solido esperimento di ricerca, forte di una resistenza di successo negli anni. Il monologo risale al 1990, quando fu presentato al Teatro municipale di Mosca, ed è un’analisi spietata sulla realtà della parola defraudata dal caotico sistema della comunicazione.
“Panza, crianza, ricordanza” è quindi teatro di voce, di sottrazione e concentrazione. La sottrazione è compiuta con radicalità: sottrazione della tecnologia, innanzitutto, quasi totale, se si escludono brevi montaggi video proiettati a fondo scena. Una scelta forse inaspettata visto il legame del regista con il ‘mezzo’ tecnologico.
Questo vuoto di eventi in scena è abbastanza forte da far emergere la parola in un fatto spettacolare di puro flusso vocale, sonoro e di contenuto.
La sonorità è quella già prevista nella scrittura dei tre poemetti, pubblicati nel 2009 da Meridiana Edizioni. Prosimetri per lo più in ottonari, accentati con regolarità cantilenante, e rimati con amore paterno, talvolta dolcemente ingenuo.
L’educazione e la crescita, la solitudine, il ricordo e la fame (cioè il corpo) sono i temi dei poemetti.
La riuscita appare incostante, e se l’operazione di sottrazione è compiuta con un notevole senso di radicale misura, la concentrazione del testo manca un po’ della severità necessaria. Esso raggiunge apici di grande tensione lirica in momenti di stretto autobiografismo interiore, quando si riesumano i ricordi dell’infanzia, ed “esteriore” nella presa di coscienza di stimoli e appetiti umilianti, vergognosi.
Cauteruccio mette in scena il proprio corpo senza esporlo, con un atto anticonvenzionale di fiducia nella parola descrittiva ed esplorativa.
Quando però questa coscienza del sé si rispecchia nell’altro, nel fuori (in quella seconda sedia, vuota, attorno al tavolo?), allora la prospettiva si restringe troppo, e la parola sembra ridursi in spazi concettuali troppo angusti: la cattiveria, l’insensibilità degli uomini, la bruttezza della guerra, il disamore generalizzato per la “cultura”, la solitudine e l’incomunicabilità non trovano spazi teorici sufficienti né all’impresa analitica né a quella dell’azione, e rimangono a dire e ridire sé stessi. Il personaggio che parla sembra schiacciato, e urta contro i muri ribattendo un continuo perché, come un cieco in un vicolo.
Possiamo provare a fare un passo all’indietro, e dire che lo spettacolo, o la lettura, assume una sua fisionomia completa a questo patto: che la vergogna che appesantisce l’io in scena – quella del corpo, della fame – sia la stessa che, posto Cauteruccio a interprete del personaggio sé stesso, allarga questa lunga ombra di impotenza pure al livello concettuale, del ragionamento.
In altri termini, come alla fame e al proprio corpo non si può sfuggire, così il personaggio che Cauteruccio impersona (cioè Cauteruccio stesso) non riesce a sfuggire allo stillicidio del dolore, dell’incomprensione, della solitudine, del male, della bruttezza, rinchiuso in un’impotenza esasperante.
Luci spente: ci aggreghiamo all’applauso del denso pubblico amichevole, e seguiamo con un senso di affettuosa gratitudine il piccolo uomo uscire come era entrato, facendosi largo a fatica tra gli strapuntini, ma senza fretta.
PANZA, CRIANZA, RICORDANZA
scritto, diretto e interpretato da Giancarlo Cauteruccio
produzione: Teatro Studio Krypton
con il sostegno di Regione Toscana
durata: 60′
applausi del pubblico: 2′
Visto a Roma, Teatro Argot, il 12 gennaio 2014