La messinscena dell’orrore nella società dello spettacolo. Riflessione dal palco di Parigi

|ll viaggio a ritroso sul palco dell'orrore compiuto ieri dal nostro inviato (photo: Tommaso Zaccheo)

Dove vivo io, ogni sabato mattina, c’è musica. Dove vivo io, ogni sabato mattina, più o meno verso le undici, una tromba suona per la strada. Dove vivo io, se apri la finestra un qualunque sabato mattina, senti il rumore dei passanti che camminano, senti voci, suoni, musiche di bambini che giocano e sorrisi di ragazze, che li senti pure quelli come una musica lontana, come un ricordo.

Dove vivo io questo sabato mattina [ieri, per chi legge] ho scoperto qualcosa che non sapevo: l’orrore non ha suono. È pallido come il gelo. Freddo come una lama.

Questa mattina, qui a Parigi, la casa era una gabbia, le finestre sbarre. Mancavano aria, suoni, respiri, calore. Eppure è stato necessario rendermi pienamente conto di essere in gabbia per poter trovare la volontà di uscire.

Parigi ha sempre avuto per me qualcosa di irreale: spesso mi sono chiesto – la notte tornando a casa, all’alba, o al tramonto – se questa città esista realmente oppure no. “Forse sono io che la immagino – pensavo – e lei contraccambia immaginando me che le cammino dentro… e così tutto diventa vero, anche se incredibile”.

Parigi oggi è impossibile: impossibile tutto questo vuoto su boulevard Voltaire. Impossibili questi sguardi allucinati, questo senso di vuoto negli occhi, questo bisogno di calore in tutti gli sguardi che incrocio, in tutti uguale il vuoto che preme, forte. In tutti la certezza che oggi non è più come domani e che il domani è un dubbio insopportabile.

Saint-Ambroise si staglia alla mia destra, per me che vengo da Bastille. Le sue due guglie si appoggiano su uno sfondo latteo di nuvole dense. Sembra un quadro. Sembra finta. Mi ipnotizza per un po’ il suo rosone scuro. Poi una voce mi sveglia: “Jusqu’à là?”. È la voce di una ragazza. Mi volto: è una ragazza che parla col compagno. “Fino a qui?” gli chiede. “No, fino a giù, fino a rue de Charonne. La Belle Equipe è più in fondo”.

L’orrore, muto e sordo ma mai cieco, è arrivato fino in fondo, ha colpito in profondità, ha affondato la lama fino a che non ha dilaniato muscoli e organi interni. È arrivato fino al Bataclan e lì ha deciso che ne aveva abbastanza, che poteva prendersi il suo momento di orgasmo sanguinario. Ma quest’orrore, lucido e perverso quanto stupido e meschino, non viene da lontano. E ci vede benissimo. E ci conosce benissimo.

Lo capisco con una forza dirompente quando, ormai a cinquanta metri dal Bataclan, tutto il circo mediatico mi appare in tutta la sua fredda imponenza. I camion delle televisioni di tutto il mondo sono schierati, sembra, a protezione di qualcosa. Mi avvicino e capisco. A protezione dei cameraman, a loro volta schierati in un’unica fila intorno alle transenne della polizia.
Sono lì, fermi, in attesa di riprendere ogni minimo dettaglio della storia che è appena passata di là è che ci ha travolti con la sua banale crudeltà.

La logica di quest’orrore è inappuntabile: ha voluto terminare la sua orgia crudele proprio qui, dove uno spettacolo di vita stava svolgendosi. Dove sapeva che più a fondo avrebbe ferito, dove lo spettacolo di morte che stava inscenando avrebbe trovato il suo apice perfetto. Il puzzo di questa spettacolarità disgustosa mi colpisce come quello del vomito. E realizzo a pieno la logica perfetta ed oscena di quanto è accaduto.

Con la presenza dell’impossibile fattosi realtà mi decido a gustare anch’io il mio pezzo di ributtante spettacolo. Tanto una volta che l’hai davanti non puoi fare altro.
Così prendo il mio cellulare e mi lascio condurre dal navigatore in questo tour dell’orrore gratuito e a due passi da dove vivo.

ll viaggio a ritroso sul palco dell'orrore compiuto ieri dal nostro inviato (photo: Tommaso Zaccheo)
ll viaggio a ritroso sul palco dell’orrore compiuto ieri dal nostro inviato (photo: Tommaso Zaccheo)

Poco prima di arrivare all’incrocio con rue de la Fontaine du Roi rallento un po’. Un ragazzo è appoggiato sul muro e fissa il vuoto. Capisco che sono arrivato alla seconda tappa dell’orrore. Quello che non capisco è quanto osceno possa essere.
Il bistrot fa angolo. Davanti c’è un cordone della polizia bianco e rosso. Le tende del locale sono viola. Per terra è tutto ricoperto di una sabbia rossa. Sembra il riflesso sbiadito delle tende. È per coprire il sangue. Tutto il marciapiede è pieno di questa sabbia. Tutto il marciapiede era pieno di sangue. Saranno quattro-cinque metri quadrati. Qualche ora fa c’erano corpi senza vita e sangue. Ieri sera erano pieni di suoni, voci e musica. Ora c’è solo silenzio e vuoto.

Rue Bichat è l’anticamera dell’assurdo. Questa via anonima e chiusa è la porta d’accesso alla terza tappa di questo viaggio a ritroso nell’orrore. Qui lo spazio è più piccolo: i locali sono uno a fianco all’altro: Le Petit Cambodge, Le Car.Rillion e il Maria Luisa.
Lo spazio è piccolo: i locali e le case gli uni sulle altre. Da una finestra a due metri dal Car.Rillion, al piano terra, si affaccia un signore col figlio. Si chiama Viena. È di origini portoghesi. Stava mangiando ed ora, al passaggio del sindaco Hidalgo, raggiunge la finestra. Ci sono un po’ di giornalisti. Racconta che ieri stava guardando la partita. Ha visto le esplosioni in televisione. Dopo due minuti ha sentito come degli scoppi di petardi da fuori. Si è affacciato. L’orrore gli ha bussato alla porta, sfiorando insieme a lui i suoi cinque figli e sua moglie.

Questo è il luogo dell’entrata in scena dell’orrore. Da qui ha scelto di cominciare lo show. Perché lui, l’orrore, è uno straordinario metteur en scène. Conosce bene il suo palcoscenico. Sa come usarlo. E conosce il suo pubblico: sa quali trucchi bisogna usare per terrorizzarlo e ridurlo al silenzio. Sa dove come e quando colpire. Conosce i tempi di reazione del pubblico e le sue differenti posture. D’altronde è cresciuto in mezzo a noi. Ci ha studiati. Sa perfettamente cos’è questa nostra società dello spettacolo, questa società dell’apparire. Ci odia, sì, ma è troppo vigliacco per inventare, per rubare e far meglio, per cambiare, per creare. Però è bravissimo a copiare. Venerdì ha dato prova di capacità mimetiche straordinarie.
Ci odia tanto da identificarsi in noi alla perfezione. Desidera tanto il nostro sguardo che è pronto a tutto. Crede di averci capiti, lui. Conosce i nostri istinti perversi, di morte e di possesso, perché sono i suoi. È cresciuto in noi e ora si è fatto adulto.

Soltanto, lui era ed è la parte peggiore di noi. L’incubo che non abbiamo saputo analizzare, che non abbiamo saputo trasformare in sogno. Era ed è la parte peggiore di noi, della nostra società dello spettacolo, la parte con la quale non abbiamo saputo fare i conti, che non abbiamo preso sul serio. La parte impresentabile del nostro universo dello spettacolo, che abbiamo relegato in quinta dimenticandocelo. Ma intanto, dal fondo scena, lui, l’orrore, ci studiava.

Ora che è adulto, che è qui, che è un corpo estraneo che si attacca alla nostra pelle cercando di incancrenirla, cosa dobbiamo fare?  Come comportarci se quello che vuole è vomitarci addosso un’“accumulazione di spettacoli” di terrore e di sangue? Che armi abbiamo per combattere un odio dalla vista lunga, dalla follia lucida e dal sangue freddo?
Saremo capaci di non rispondere con un odio cieco ed inutile? Sappiamo chi siamo, veramente, noi?
Cosa non è in noi società dello spettacolo per sé stesso e ad ogni costo? Saremo, domani, ancora capaci di essere civiltà? Ci sarà ancora la parte migliore di noi domani?

Uno spettacolo vuoto di morte e di assurdo ci sta attaccando. Usa tecniche che noi gli abbiamo insegnato.
Che tecniche sapremo inventare, noi, domani, per sconfiggerlo? Siamo ancora capaci di inventare? E di salire sul palco in modo davvero nuovo?

0 replies on “La messinscena dell’orrore nella società dello spettacolo. Riflessione dal palco di Parigi”
Leave a comment

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *