La necessità di comunità del Teatro delle Albe. Intervista

Ermanna Montanari / Maryam (photo: Kilowatt)
Ermanna Montanari / Maryam (photo: Kilowatt)

“Maryam è una lunga preghiera a Maria di tre donne musulmane, che le vanno a chiedere vendetta e consolazione”.
Così ci racconta Ermanna Montanari, raggiunta a Sansepolcro (Arezzo) in occasione della 15^ edizione di Kilowatt, che quest’anno ha avuto come titolo ideale “Il pensiero speranza”, frase presa in prestito al filosofo tedesco Ernst Bloch.
Con lei, qui madrina, Marco Martinelli, compagno da sempre d’arte e di vita, con cui fondò nel 1983 il Teatro delle Albe, assieme a Marcella Nonni e Luigi Dadina.

Tra convegni e spettacoli, a Kilowatt hanno proiettato anche la loro prima prova cinematografica, quel “Vita agli arresti di Aung San Suu Kyi” che è stato totalmente riscritto a partire dal loro omonimo spettacolo, e che sarà presentato giovedì 31 agosto alla Mostra del Cinema di Venezia.

A Kilowatt le Albe sono usciti a “riveder le stelle” dopo i 34 giorni in cui Ravenna e il loro Teatro Rasi erano stati “sconquassati” per diventare l’”Inferno” di Dante, nella prima tappa della “Divina Commedia” che arriverà con il Purgatorio a Matera nel 2019 – anno che la vedrà capitale europea della Cultura –, in attesa del Paradiso e di poter assistere a tutta la trilogia completa nel 2021.
Un anno di commemorazioni importanti, questo, per Ravenna e per il mondo culturale italiano: i 700 anni dalla morte del poeta fiorentino nella città bizantina per eccellenza.

Ermanna Montanari, dopo averci raccontato come le sue “Miniature Campianesi” siano state lette dai cittadini di Sansepolcro “tutti con la loro balbuzie di cuore”, si concentra su “Maryam” (Maria), testo di Luca Doninelli, nato dai racconti di alcune donne di religione musulmana.

Questi racconti hanno dimostrato come anche nel Corano la figura di Maria sia centrale.
Tutto si svolge da dietro un velo, e tutto viene filtrato da quel velo. Su di esso viene scritta la traduzione in arabo del testo, che abbiamo fatto con un poeta arabo. Il Corano è un libro dettato direttamente a Maometto da Allah, ben diverso dalla religione cattolica, che invece ha gli uomini a scrivere la novella. Il Corano è il loro segno, la loro visione: il libro è visione. Per un musulmano, che vede quei segni tracciati, è come sfogliare un libro: coloro che sono venuti sono rimasti affascinati.

Per interpretare quella visione di cosa ti sei rivestita, o svestita?
Mi sono totalmente “svestita”, come una performer, e per dire quelle parole ho assunto un ritmo di preghiera: perché sono preghiere. Queste donne che vanno a chiedere vendetta le chiamiamo così: preghiere. E la preghiera è anche questo, di fronte al proprio Dio, alla propria Madre celeste: anche bestemmiare, anche chiedere il male. Viene spiegato bene nelle chiese medioevali, dove escono i mostri: far uscire, anche in un luogo sacro, le nostre mostruosità è inizio di un rito rigenerante, benefico. E con “Maryam” si è generata una spirale di questo tipo.
Il fatto che sono io tutte le donne, che hanno una questione simile, quella dell’abbandono, della fede, della bestemmia, e che io sia la stessa Maryam, indica dove ci troviamo, quale sia il nostro mistero, perché esso non ci abbandona, ci è attaccato addosso: quando siamo nella disperazione ci rivolgiamo a qualcuno, e per qualcuno è Maryam.

Marco Martinelli, torniamo ora al vostro Inferno, e alla speranza che ci avete colto…
La speranza c’è proprio perché Dante si è specchiato in ogni categoria di male. A un certo punto, al Diciassettesimo Canto, quello degli usurai, uno di loro gli dice: “Tanto in noi ti specchi?”. Per me questa frase è la chiave di tutto. Cioè io, l’Everyman di Ezra Pound, il pellegrino, io umanità, non sono esente da nessun male che possa vedere al di fuori di me. Io sono tutte quelle possibilità di male, e la grande speranza è quella di poterne uscire. Dopo secoli di distanza, credo che valga ancora la pena impugnare quest’opera, credere davvero che l’umanità possa uscire da quel male. Non è retorica, c’è ancora un’uscita: è possibile solo se ne usciamo insieme. Ricreando comunità.

La comunità che si è formata a Ravenna per l’Inferno…
La Divina Commedia è il poema del cammino: Dante questo cammino lo fa fisicamente in mezzo alle ombre, con i suoi piedi, come appunto l’Everyman di Pound.
Mille persone sono state coinvolte, tra chi era in scena e coloro che invece hanno dato una mano. Ognuno di noi è quel pellegrino, e la città ha risposto in modo incredibile. Dopo le 34 serate sono stati loro stessi a chiederci: “Come, non continua?”. I cittadini hanno scelto in che coro stare, cosa che avverrà anche nel Purgatorio e nel Paradiso: sono diventati i protagonisti veri e propri.

Come ci siete riusciti?
Lavorando insieme, semplicemente così: hanno iniziato a lavorare con noi due mesi prima. Alla fine, in media c’erano ogni sera 90 spettatori e 300 attori. Eravamo di più noi che lo facevamo… Io ed Ermanna eravamo Virgilio, e prendevamo fisicamente ognuno di loro, come fa Virgilio con Dante, con “lieto volto”, introducendoli alle “segrete cose”.

Rispondendo a quale necessità?
Anche qui si è creato il cortocircuito tra la parola alta, verticale di Dante, e il bisogno fortissimo di comunità di questa società frantumata, spappolata. Noi lo avevamo già verificato nelle scuole, con gli adolescenti. Questa volta lo abbiamo trovato con tutte le generazioni: avevamo dai bambini di 8 anni fino a arpie e diavoli di 80 anni: erano commoventi, arrivavano tutti i giorni con noi, alle 18, e si preparavano, insieme a noi.

Torniamo ancora indietro, di un decennio. Dal sipario che s’innalzava in “Sterminio” (2006), da quel condominio infernale, vi siete poi concentrati – nei successivi spettacoli – su singoli esseri viventi, e sul loro tentativo frustrato di essere parte di una comunità. Aprendo quell’abisso, ci avete messi di fronte al gorgo in cui ci siamo persi. Da lì è iniziato questo lungo cammino che ora si sta chiudendo nel cerchio della Divina Commedia…
In questa politica che si è snaturata ahimè parecchio, dobbiamo veramente credere che sia sempre possibile uscire da questa Italia, da questo pantano: la metafora del pantano nel caso di Marco (Pantani, a lui è dedicato il loro spettacolo omonimo del 2012, ndr) l’abbiamo usata per parlare di tutti noi, della corruzione, del fango.

Con la speranza che questo fango si possa modellare in altro…
Sì, come nella creazione, quella mitica, archetipica. Il fango che diventa creta, modello. E solo ricreando una vera comunità lo potremo fare davvero.

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