La prima periferia. L’anatomia del movimento per Pathosformel

La prima periferia di Pathosformel
La prima periferia di Pathosformel
La prima periferia di Pathosformel (photo: shorttheatre.org)
Provare a raccontare sulla rigidità della pagina cosa sia “La prima periferia” è davvero difficile. Non che la sperimentazione su oggetti e drammaturgie non «umane», con il ruolo dell’attore relegato in secondo piano, sia una novità.

L’impresa sarebbe più facile se si trattasse di rendere conto di un esperimento tecnico, più o meno efficace, ma limitato alla ricerca un po’ fredda di estetiche il più possibile originali (ciò che accade la maggior parte delle volte).
Il lavoro dei Pathosformel, invece, come forse soltanto i Santasangre erano finora riusciti a fare, sa davvero trasformare la natura inanimata degli oggetti (in questo caso tre manichini) in un corpo fluido, vivo, in un nuovo tipo di emotività, difficile da descrivere proprio perché nuova, svincolata da categorie tradizionali o, per meglio dire, occidentali.

Proprio dall’Oriente, in effetti, arriva il modello fondamentale della “Prima periferia”: il Bunraku, una forma artistica che nel nostro lessico diremmo «teatro di figura», essendo basato sull’uso di marionette. Soltanto che, diversamente da quanto accade da noi (con alcune eccezioni), i manovratori e la loro azione non sono nascosti oltre la scena, ma parte fondamentale della rappresentazione, presenti sul palco in una simbiosi totale con l’oggetto da controllare, fin quasi a non poter più distinguere la guida dal guidato.

Del Bunraku parla pure Roland Barthes in un suo libro gioiello, “L’impero dei segni”: delle bambole giapponesi, dice che sono «alte da uno a due metri, con arti, mani e bocca mobili; ogni bambola è mossa da tre uomini visibili, i quali l’avvolgono, la sostengono, e l’accompagnano».
E proprio tre sono i performer in scena nella “Prima periferia”, accompagnati da altrettanti manichini di metallo, dipinti di giallo, telai di ossa e articolazioni: aspettano già in scena i loro manovratori, sdraiati in posizione fetale o seduti sul proscenio.

Le differenze rispetto al Bunraku però sono almeno due. La prima sta nella mobilità dei manichini: quelli usati dai Pathosformel sono un telaio fitto di giunture, fascine metalliche, corpi mobili; un equivalente più che dettagliato dello scheletro umano, sfruttabile non solo per raccontare una storia, ma anche per descrivere e mostrare la meraviglia del movimento in sé.
La seconda differenza è che nel Bunraku c’è un testo recitato e cantato, a cui le bambole reagiscono (vengono fatte reagire) mimando le reazioni emotive.

Nel nostro caso, invece, la drammaturgia di fondo con cui interagiscono i manichini è prettamente musicale, un tappeto a metà fra i glitch dell’elettronica e le aperture dell’ambient (in cui è facile intravedere l’influenza dei Port Royal, un altro gruppo italiano giovane e promettente con cui i Pathosformel hanno collaborato). Proprio questo tappeto musicale è importantissimo per l’energia dello spettacolo, sia per la fluidità emotiva in cui coinvolge il pubblico, sia perché è dai suoi picchi e dalle sue pause che nascono le variazioni ritmiche dei manichini e dei loro manipolatori.

I performer, muovendo con pertinacia i loro compagni metallici, mettono in scena non soltanto il gesto, ma anche l’arte e il lavoro da cui quel gesto è preparato: è abolito il confine fra visibile e non visibile, sia il gesto sia la fatica e la cautela che lo precedono fanno parte della scrittura teatrale, nulla viene nascosto; dei manichini si mima perfino la respirazione, l’espansione della cassa toracica.
Le giunture gialle del metallo sono sfruttate una ad una, mosse con la delicata e attenta sincronia indispensabile al manichino per alzarsi in piedi, dall’attrito delle falangi dei piedi allo spostamento delle braccia per riequilibrare il baricentro.

Quest’anatomia in esposta azione ci fa riscoprire, con una sorta di aggiornamento dello straniamento brechtiano, la bellezza dello stare in piedi. Ma è altrettanto interessante la relazione che s’instaura fra i performer: i momenti in cui ognuno è concentrato su un manichino diverso, dividendo lo sguardo e l’attenzione dello spettatore, si alternano a quelli in cui tutti e tre convergono sul movimento di un unico umanoide; a quel punto diventa fondamentale l’accordo dei tempi, la simmetria delle microazioni, tanto che la musica di fondo, i tre manovratori e il manovrato sembrano davvero perdere i reciproci confini, unendosi in una sola sfera che potremmo forse dire «ritmica».
E cos’è, in fondo, “La prima periferia”, se non uno studio sul ritmo come principio vitale, creativo e democratico, legge invisibile comune a viventi e non viventi? Quando alcuni pezzettini di metallo cominciano a muoversi sul pavimento scenico come uno sciame orizzontale, fra le gambe di carne e le gambe di ferro, lasciando immaginare la presenza di un magnete sotto il palco, si ha la sensazione di assistere a quella che Artaud avrebbe chiamato crudeltà: la forza magnetica e oltreumana della natura, nient’altro.

La prova migliore di quando un lavoro teatrale riesce a creare un’atmosfera coerente e vera sta nella capacità di assorbire anche l’imprevisto e l’improvvisazione: è quanto succede, credo, quando uno dei manichini, lasciato seduto su un piano rialzato sul fondo del palco, si sbilancia e cade col clangore della lamiera.
Sembra tutt’altro che una sbadataggine: il caso, anzi, dona alla caduta qualcosa di tragicamente significativo, come un inaspettato cedimento, una fragilità subito inclusa nel ritmo che la avvolge.

Soltanto nel finale lo spettacolo sembra un po’ tirato e perde qualcosa in intensità: ma basterebbe tagliare qualche minuto, o trovare altre dinamiche per accompagnare il tappeto musicale verso la sua naturale conclusione.
Nonostante l’incompiutezza di “An afternoon love“, presentato sempre a Short Theatre qualche giorno prima, stavolta i Pathosformel dimostrano di essere un gruppo di ricerca già straordinariamente maturo.

Dietro l’azione tutta fisica dei performer si schiude una riflessione radicale: per citare ancora Roland Barthes, il Bunraku (così come “La prima periferia”), «non mira ad ‘animare’ un oggetto inanimato; […] l’impassibilità, la chiarezza, l’agilità, la sottigliezza, ecco ciò che realizza il Bunraku, ecco come converte il corpo-feticcio in corpo piacevole, ecco come rifiuta l’antinomia tra animato e inanimato e congeda il concetto che si nasconde dietro ogni animazione della materia, e che è poi, molto semplicemente, l’anima».

La prima periferia
di: Daniel Blanga Gubbay, Paola Villani
e con: Simone Basani, Giovanni Marocco  
produzione: Pathosformel / Fies Factory One
coproduzione: Centrale Fies, Operaestate Festival Veneto, Uovo performing arts festival
con il contributo di: Ufficio Promozione Giovani Artisti-Comune di Bologna
con il sostegno di: Teatro di Fondamenta Nuove (Venezia)
in collaborazione con: Teatro Franco Parenti – Progetto Residenze
Pathosformel fa parte del progetto Fies Factory
durata: 40′
applausi del pubblico: 2′

Visto a Roma, il 12 settembre 2012, La Pelanda
Short Theatre


 

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2 Comments

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  1. says: mo

    Anche se (molto) per assurdo si trattasse davvero una cialtroneria, non vedo perché sarebbe sbagliato indicarne il modello, per quanto aureo sia…