La Reprise. Milo Rau tra messa in scena e autenticità

La Reprise (photo: Hubert Amiel)|Photo © Michiel Devijver
La Reprise (photo: Hubert Amiel)|Photo © Michiel Devijver

Il Manifesto di Gand, redatto e pubblicato da Milo Rau il primo maggio 2018, recita al primo punto: “Non si tratta più di dipingere il mondo. Si tratta di cambiarlo. L’obiettivo non è rappresentare il reale, ma rendere la rappresentazione essa stessa reale”.
È calcando parola per parola la famosa undicesima “Tesi su Feuerbach di Marx (“I filosofi hanno [finora] solo interpretato diversamente il mondo; ma si tratta di trasformarlo”) che il regista svizzero, nipote del filosofo Dino Larese, poi allievo di Pierre Bourdieu, inaugura la sua direzione del NTGent, teatro nazionale della città di Gand.
Radicalmente dentro e oltre i codici del teatro documentario, l’opera “La Reprise. Histoire(s) du théâtre (I)”, creata al Kunstenfestivaldesarts, applaudita ad Avignone 2018, è approdata al Théâtre des Amandiers come l’evento da non perdere di questa edizione del Festival d’Automne. In attesa di arrivare, dal 9 all’11 novembre, a Romaeuropa.

La radicalità, il rigore e l’audacia di quest’uomo di teatro (di cui il pubblico italiano ha potuto valutare anche “Empire”, proposto tra 2017 e 2018 in più festival) sono note – si pensi a tal proposito allo spettacolo “Five Easy Pieces”.
La sua praxis teatrale si fonda su tre cardini: prima di tutto, fare in modo che la rappresentazione indaghi e prenda posto nel fondo più violento e oscuro del reale. Poi, mettere in questione i processi produttivi del teatro, aprendoli all’esterno, verso il pubblico, oppure portando il teatro al di fuori dei suoi confini, dove è sconosciuto, in zone di guerra per esempio (si vedano gli altri lavori creati dalla sua società di produzione, l’International Institute of Political Murder). Infine, il suo lavoro cerca di attaccare i dogmi del sistema teatrale, soprattutto in ambito francofono: la professione e lo statuto d’autore. Sintetizzando forse troppo un discorso altrimenti lungo e complesso, nel suo Manifesto Rau obbliga su tali cardini la sua ricerca teatrale.

Ora, se due punti probabilmente non sorprenderanno, abituati da tempo a riconoscere nell’attore, nel collettivo o nel regista l’autore del teatro, il secondo struttura l’opera “La Reprise” e si iscrive, ma criticandola, in una poetica di irruzione del reale nella finzione che in Francia ha come principale esponente Mohammed El Khatib. L’indagine di quest’opera, definibile come neo-documentaria, intende mostrare, per cercare di comprendere, cosa è successo a Ihsane Jarfi, giovane omosessuale belga ucciso senza alcuna ragione a Liegi nel 2012. L’inchiesta, sociale, politica, ma anche psicologica, intorno a questo fatto di cronaca vuole ricostruire come e perché quest’atto ha avuto luogo. E’ quanto afferma Rau in un’intervista rilasciata ad Arnaud Laporte (Théâtre(s), n°15, automne 2018), rivelando anche nel dettaglio il suo metodo di lavoro, fondato, in un primo momento, su un’inchiesta sociologica sul campo.
In un secondo momento, i casting devono riunire un gruppo di attori e non attori scelti con rigore, al fine che gli uni e gli altri possano esprimere un punto di vista eterogeno sul caso in questione, senza tuttavia rinunciare a una certa coerenza rispetto ai personaggi da interpretare. In questa fase, l’operazione si vuole aperta al pubblico, così come lo saranno le prove e il post-rappresentazione, che tramite dibattiti e incontri saranno suscettibili di modificare lo spettacolo.

Dopo una fase di prima scrittura del testo, “troppo lungo, troppo esplicativo” afferma Rau, esso è trasformato dal lavoro di palco con gli attori, al fine di decostruire per ricostruire il fait divers in questione – o anche l’evento storico, come nel caso di “Compassion. Histoire de la mitraillette”.
Questo schema operativo serve al regista per raggiungere il suo obiettivo, che sempre più appare essere quello di destrutturare – più che decostruire – i processi e i rapporti di potere del teatro.

A tal proposito, “La Reprise” si propone come il primo volume di una vasta riflessione sul teatro che, tramite la sua praxis di regia, sia in grado di modificare ed esporre la struttura del reale, teatrale e sociale, al fine di rivoluzionarlo. O meglio, trasformando la struttura di questo dispositivo ideologico, di quest’organo della sovrastruttura che è il teatro, proporre e mostrare, pragmaticamente, una via per modificare i modi di produzione e indagare, comprendere e infine attivare il pubblico. Su questo progetto Rau è radicale nel suo Manifesto: “Il teatro di Gand sarà un teatro che introdurrà […] un modo di lavorare, di creare una pièce, di formare un gruppo, di fare una tournée, molto più libero e solidale che altrove. Ma le pièces […] non saranno delle pièces felici. Sarà molto duro”.

Photo © Michiel Devijver
Photo © Michiel Devijver

Alla ricerca di una verità umana e politica, dunque, il lavoro con attori non professionisti – in questo caso l’attrice che interpreta la madre di Jarfi, il suo omicida e l’attore che incarna la vittima – è il fondamento di un teatro che epicamente vuole ostentare il suo essere finzione, che drammaticamente ricostruisce però questa finzione, che infine fa del documento reale e delle vite reali struttura e personaggi.
Da prologo epico, infatti, funziona il monologo col quale l’attore Johan Leysen ci introduce tanto nell’opera quanto nel mondo ch’essa ricostruisce. Allo stesso modo, la messa in scena dei casting coi quali i tre non-attori sono stati scelti da una parte ricorda al pubblico la finzione del teatro mostrandola, dall’altra lo introduce nella trama e lo conduce alla sua analisi. Trama che, in cinque capitoli più uno, riprende, riflette e poi supera la struttura in cinque atti della tragedia che la tradizione ci ha consegnato. Intorno al genere tragico è infatti montato lo spettacolo, prima parte di una “Histoire(s) du théâtre” che apertamente cita la “Histoire(s) du cinéma” di Godard, affinché la struttura storica del teatro sia messa sistematicamente in questione. In più, questa “Reprise” si vuole a sua volta citazione e richiamo a Kierkegaard, il quale, afferma il regista in un’altra intervista con David Sanson, parla di una “ripresa in avanti”, che implica un momento creativo e utopico, nel quale appaiono sia i fatti che i perché.

Ecco, la compagnia ricostruisce i fatti, dedicando la parte centrale della rappresentazione alla messa in scena chirurgica delle ultime ore di vita di Jarfi, senza che nulla sia risparmiato. Anzi, un cameraman in scena proietta primi piani e dettagli della morte del ragazzo, del volto degli assassini, del sangue. Tuttavia, se questa super-posizione di piani e di linguaggi, lessema del teatro contemporaneo, in questo caso amplifica e produce un effetto di reale, precedentemente è usato in modo diverso. Poco prima della scena dell’omicidio, i corpi nudi degli interpreti della madre e del padre adottivo di Jarfi si sovrappongono al filmato in cui gli stessi ricostruiscono la scena dell’attesa del figlio che mai più rivedranno. Nudi in scena, mimano e riproducono quello che il filmato mostra. È questo uno degli esempi possibili di un teatro, quello di Rau, che costruisce una dialettica tra reale e finzione in cui la “mediatizzazione” dei corpi e delle storie è capace tanto di produrre distanza critica quanto immersione totale. Giocare con tutti i codici del teatro, inglobandoli e fondendoli, crea un effetto che vede lo spettatore implicato direttamente nella fabula, non solo coautore coatto, ma complice dei processi, anche emozionali, solidale con gli uomini, con la loro storia e di essa responsabile. Responsabile di ciò che accade nel reale, complice con altri uomini, siano essi gli attori, i personaggi o i morti, che senza malizia, irrazionalmente ma umanamente l’opera si propone di far rivivere.

Tutto sotto il segno della “Reprise”, questo spettacolo – arrogante e raffinato contenitore del mondo, mai suo riflesso o rappresentazione – fa un uso della citazione massiccio. Tale tecnica, che Benjamin ci ha insegnato essere costitutiva del teatro epico, in qualche modo apre e chiude l’opera. E lo fa costruendosi su piani diversi, proprio come uno storico o un sociologo studierebbero un fenomeno, considerandolo nei contesti multipli nel quale è inserito.
Per fare un esempio, quando nel prologo il grande attore fiammingo Leysen interpreta il fantasma del padre di Amleto, l’opera tutta può essere vista come una citazione di questa scena, in quanto la volontà del regista è quella di far parlare chi è morto. Ma nel momento in cui l’attore che interpreta Jarfi riprende sul finale la scena del testo “Seuls” di Wajdi Mouawad, in cui un attore minaccia di impiccarsi se il pubblico non dovesse intervenire, annunciata nella scena proemiale dei casting, questa citazione e questa ripresa ci danno la cifra della natura degli effetti di reale di questo teatro. Tutta tesa a ricostruire una finzione, dichiarando il gioco col quale essa è creata, lo spettatore è obbligato a prendere coscienza di essere complice di questo reale.

“La Reprise” è uno spettacolo in cui la scrittura scenica si dà come processo, non per costruire effetti ma per ricostruire il reale, e con esso la sua critica e la sua trasformazione. Basti pensare che l’appello del non-attore al pubblico ad intervenire per salvargli la vita viene recepito come un effetto reale, provocando un piccolo choc, un piccolo dubbio: si impiccherà davvero? Eppure, il raffinato linguaggio del regista, che costantemente mediatizza il reale e la sua critica, non dovrebbe far sospettare una facile e volgare uscita dal gioco del teatro. Al contrario, questo rituale dialettico e collettivo incita a una presa di posizione, a un attivismo che sia, nel mondo come nel teatro, sempre cosciente dei meccanismi che alienano l’individuo, per costruire insieme le tecniche che portino ad una liberazione dell’umanità.

La Reprise. Histoire(s) du théâtre (I)
Regia e concezione Milo Rau e International Institute of Political Murder
Con Tom Adjibi, Sara de Bosschere, Suzy Cocco, Sébastien Foucault, Fabian Leenders, Johan Leysen
Drammaturgia Eva-Maria Bertschy, Stefan Bläske, Carmen Hornbostel
Assistente alla regia Carmen Hornbostel
Video Maxime Jennes, Dimitri Petrovic
Direzione tecnica Jens Baudisch
Luci Jurgen Kolb
Produzione Mascha EuchnerMartinez, Eva-Karen Tittmann
Scenografia e costumi Anton Lukas

durata: 1h 30′

Visto a Nanterre, Théâtre des Amandiers, il 2 ottobre 2018

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