Arrivando alla Biennale Danza con sulle spalle il mese precedente di Teatro e Musica, si ha da subito l’impressione di trovarsi di fronte, a Venezia, ad un’aria nuova in cui la vera arte è in grado di vivere (ancora) e respirare più agilmente.
Lo si pensa innanzitutto di fronte alla video-presenza della direttrice artistica al suo ultimo anno di mandato, Marie Chouinard, nella sua simpatica ed emozionante presentazione delle motivazioni per la consegna dei Leoni di quest’anno.
Quello a La Ribot, “Grande Dame stravagante dell’arte contemporanea” come l’ha definita la Chouinard nel consegnarle un Leone d’Oro indiscutibilmente ben scelto, è in grado di premiare una carriera pluriforme che, da 35 anni, non ha smesso di praticare una performatività al massimo grado di un valore vero e vivo, riconosciutole già dal portrait a lei dedicato dall’ultimo Festival d’Automne di Parigi, con annessa mostra dei cahiers, e non soltanto, al Centre national de la danse.
Interessante, come già nelle ultime edizioni, l’operazione di riportare in scena a Venezia un collage di lavori che risale al 1997, rendendo la Biennale anche una vetrina storica, ambiguamente così viva anche in quest’attitudine al limite del post-postmodernismo, di ciò che di meglio l’Europa ha avuto da dire e da vedere ai giorni nostri.
“Mas distinguidas” non sarà forse stato una novità per molti dei presenti in sala, ma è invece con certezza che si può affermare quanto l’eleganza dominatrice della Ribot, prima fucked off da se stessa aprendosi e chiudendosi addosso una sedia pieghevole, addosso al muro di fondo, nuda, con un cartello addosso su cui spicca la scritta “Se vende”, e poi in mille altre brevi scene dalla forte tensione ironica ed estremamente avvincente al contempo.
Una giornata, quella di apertura del 13 ottobre, che ha visto iniziare le attività della Biennale con una coppia di lavori – “A mushroom at the end of the world” di Marco D’Agostin e la rilettura della “Sacre du Printemps” di Xavier Le Roy – affidati ai giovanissimi della Biennale College tra i quali si distinguono, in particolare, grazie agli spazi di libertà lasciati dai due coreografi nei rispettivi pezzi, l’italiano Luca Tomasoni e, su tutti, l’australiana Thalia Livingstone, che nonostante la giovane età dimostrano con la loro maturità espressiva di essere personalità che sarà interessante seguire negli anni a venire.
Un’arte viva su tutti i livelli e tutti i fronti, quindi, la danza della Biennale appena iniziata, che ha però visto nel lavoro di Guy Nader e Maria Campos forse un punto debole della linea perseguita in questa edizione: la gestualità di “Time takes the time time takes” cade infatti in una danza troppo ‘danzata’, che sin dagli anni ‘80 si vede e si rivede, consegnando in questo caso un lavoro inspiegabilmente applauditissimo.
In scena i corpi si muovono sulle loro orbite di spazio e di tempo, perseguendo combinazioni sempre perfette che hanno lo scopo di rendere i loro incontri delle collimazioni e non invece degli scontri: sempre così precisi nell’avvicendarsi, con il proprio gesto ripetuto prima in una direzione e poi nell’altra. Questa impostazione, tuttavia, non manca pure di annoiarci, nel suo tornare sempre uguale a se stessa: nel lavoro in scena i performer sono abili nel consegnare una prova tecnica d’eccezione, ma mancante di una reale partecipazione.
Una linea, quella della danza-danzata sottesa a questo lavoro, oggi così rischiosa, che trova invece un’alta ed impeccabile riuscita nel marmoreo pezzo presentato la sera successiva dal Leone d’Argento Claudia Castellucci: “Fisica dell’aspra comunione”.
Cinque i danzatori in scena, in uno stage tutto color cammello, dal pavimento al tendaggio tri-parietale che, abbinato nel suo velluto ai costumi iper-contemporanei a metà tra il militaresco e il futuristico, fa pensare, e non poco, alle migliori opere del realismo magico degli anni Venti; con un lavoro iper-teso, differentemente da quello della sera precedente di Nader/Campos, che trasforma in gesto danzato – alle volte sottostando troppo banalmente agli impulsi ritmici essenziali della partitura – le musiche del “Catalogue d’Oiseaux” di un Olivier Messiaen, interpretato con un pianoforte in fronte-scena da Matteo Ramon Arevalos.
I performer stringono spesso i loro calibratissimi movimenti in una inglobante formazione circolare, nella quale si avvicinano dissolvendo le proprie individualità, come quando la massa umana da loro così formata ruota vorticosamente su se stessa. Una modalità gestuale che esprime in modo perfetto quella tanto aspra comunione che si concretizza in gesti negati ed incontri trattenuti.
Un lavoro che fa insomma collidere l’altezza pura del classicismo – indagato nei suoi lati più misterici, archetipici e primitivi – con un momento iper-contemporaneo, in cui le luci si abbassano e l’ordine della musica di Messiaen diventa rumore disturbato dall’elettronica, tra movimenti compulsivi e schizofrenici.
Giornate dense, queste di debutto del 14° Festival Internazionale di Danza Contemporanea della Biennale di Venezia, in cui si sente che qualcosa vive qui più che altrove, come ha riassunto proprio la Castellucci nelle parole conclusive del suo discorso di ringraziamento per il Leone d’argento, cogliendo bene anche il tema di questo 2020, espresso iconicamente dal titolo voluto dalla Chouinard – AnD NoW: “Tutto questo durò lungo tempo, o brevissimo, perchè – a dire il vero – non esiste un tempo terreno per cose di questo genere”.