La Scena Madre di Abbondanza / Bertoni

Scena Madre di Abbondanza / Bertoni
Scena Madre di Abbondanza / Bertoni
Scena Madre di Abbondanza / Bertoni (photo: olinda.org)
“Scena Madre”, in uno spazio bianco e con le interpreti di bianco vestite, racconta del complesso rapporto madre/figlia, fin dal concepimento e dal tempo nel grembo materno.

Interpretata dalla danzatrice Antonella Bertoni e dalla sua genitrice biologica, l’opera, affidata alla regia e al progetto musicale di Michele Abbondanza, vive di un felice connubio di momenti della vita ed equilibrate astrazioni degli stessi in gesti, piccole parole, metafore non didascaliche.

“Scena Madre” scivola, slitta, rotola scena dopo scena in un fluire per così dire consequenziale, dove tutto è intellegibile, collegabile.
Le presenze degli oggetti in scena (una lavatrice, un tavolo, un tavolino da caffè con una teiera, una sedia e un porta flebo con in cima una lampadina) risultano tutte spiegate o coerenti. La lavatrice diventa motore immobile, sorta di buco nero dal quale, e al ritmo del quale, la maternità trova esemplificazione. Diventa utero, quindi metafora, ad inizio spettacolo, in cui si anima la fucina della vita. Ritorna oggetto proprio, quando dal suo interno viene tratto un filo a cui stendere i panni, torna poi astrazione ritmico musicale e perfino intermezzo.

Un’operazione di sintesi emotiva in cui il seguirsi dei fatti reali della vita riesce a tessere un narrato scenico convincente, a differenza, secondo il punto di vista di chi scrive, del successivo “Le fumatrici di pecore“, che invece, forse anche per opposizione di segni e intimità, è un’opera al nero. In un ideale confronto fra i due lavori, legati sia per la dualità al femminile che per il gioco concettuale cromatico e di rapporti, oltre che al sottinteso tema di educazione e stimolo biunivoco, il secondo non riesce potentemente nel tentativo di astrazione concettuale dei rapporti di forza che a fine spettacolo risultano un po’ sforzati e didascalici.

In “Scena Madre”, invece, pur in un ambiente evidentemente borghese, non proletario, viene posta in luce la crucialità del conflitto genitoriale e il suo prolungarsi dall’adolescenza per tutta la vita, diventando poi ritmico pretesto per un contatto. Quasi che senza venisse meno qualcosa.

La scelta delle musiche è più felice dove si prediligono ascolti meno frequentati, mentre i valzer del finale sono un po’ troppo consumati negli spettacoli dell’ultimo quinquennio. Certo non si può scegliere o non scegliere in base a quello che scelgono altri. E’ come se, entrando in un negozio di gastronomia, cambiassi idea perchè la persona prima di me ha scelto proprio la stessa cosa che volevo io. Ma si sa, è anche vero che l’arte è differenza, e promuovere l’innovazione, il nuovo, l’etimologicamente “inaudito” è compito dell’avanguardia.

Qui lo spettacolo, che è sempre gradevole e in alcuni punti anche emozionante per parte del pubblico, forse mostra il suo lato più di affascinazione ma anche di involontario occhiolino. Nel senso che gioca comunque alcune carte emotive più logiche e di pronta lettura.
Più sfidante, invece, la scelta sui movimenti della anziana protagonista, che in un paio di occasioni sorregge la figlia in evoluzioni ardite e intrecci faticosi.
E coraggiosa più di tutto è la scelta di raccontare e prefigurare perfino la morte. Forse per esorcizzarla, visto che si risolve poi in un sonno profondo, interrotto dal russare della donna. Ma ecco, in quello abbiamo letto un coraggio di raccontare l’irraccontabile. Il gesto artistico più estremo. Per me lo spettacolo è finito lì. Prima del finale più “buonista”. Lì, dopo l’ironico russare della madre distesa sul tavolo in penombra, dopo quegli interminabili secondi di silenzio, con la figlia lontana. E’ finito lì, su quella risata liberatoria: se fosse calato il buio, il mio applauso ancor più sarebbe stato convinto.
Perché è lì l’arte. Nel dire ciò che non si può dire, nel raccontare la vita e la morte, lì in scena. In quel misto indistinguibile fra reale e finzione, come le modelle per i quadri di Caravaggio, che non sai mai se erano vive o davvero persone affogate nel Tevere.

Quando l’arte sa giocare su questo equivoco ha una potenza che in null’altro caso sa raggiungere. Ben l’hanno capito in tempi a noi più vicini Damien Hirsch, Maurizio Cattelan e la stessa Marina Abramović, che sull’equivoco hanno giocato fino all’abuso. E proprio in questa consapevolezza tifo sempre per fermarsi un passo prima, quando del passo dopo si può già dire in che direzione si muoverà, dove si poggerà e che impronta lascerà.

SCENA MADRE
coreografia Antonella Bertoni e Michele Abbondanza
con Paola Faleschini e Antonella Bertoni
regia e progetto musicale Michele Abbondanza

Visto a Milano, TeatroLaCucina, il 2 luglio 2013
Da vicino nessuno è normale 2013

 

 

0 replies on “La Scena Madre di Abbondanza / Bertoni”
Leave a comment

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *