Riesumare la camelia: Giovanni Ortoleva alla prova con Dumas figlio

La signora delle camelie (ph: Giulia Lenzi)
La signora delle camelie (ph: Giulia Lenzi)

Ne “La signora delle camelie” Anna Manella restituisce voce e corpo a Margherita Gautier in una resa dei conti teatrale

Nel romanzo di Dumas figlio “La signora delle camelie” c’è una scena particolarmente significativa che sembra riflettere con precisione il lavoro di Giovanni Ortoleva sul testo. Si tratta del momento, descritto nelle prime pagine, in cui Armand, devastato dalla morte di Margherita, sente un bisogno morboso e impellente di riesumarne il corpo.
L’idea di confrontarsi con la salma putrefatta dell’amata diventa per lui un gesto disperato, quasi necessario, per liberarsi dall’ossessione di lei.

In questa scena, con la sua crudezza e il suo paradossale romanticismo, si trova – a parere di chi scrive – l’essenza stessa dello sconvolgimento di senso su cui Ortoleva, insieme al dramaturg Federico Bellini, costruisce la sua rilettura.

La riesumazione di questa storia, di questi personaggi – una donna e un uomo, ormai relegati al passato e resi immortali dalla letteratura – diventa nelle mani di Ortoleva un’operazione di decostruzione. Il regista sembra volerci dire che la letteratura stessa li ha trasformati, plasmati e, in un certo senso, falsati. È come se il racconto avesse iper-mitizzato la vicenda, contribuendo a creare un immaginario collettivo occidentale sull’amore tragico fra una cortigiana e il suo giovane amante. Da Violetta Valery e Armando (tra “Amami Alfredo”, un “Libiamo” e un “Croce e delizia”) all’iconica Satine di Nicole Kidman in “Moulin Rouge”, il mito si è ripetuto e stratificato, fino a diventare una sorta di archetipo emotivo e culturale.

La scena della Sala Trionfo al Teatro della Tosse riflette l’affetto del pubblico genovese per Giovanni Ortoleva. La scenografia è nuda, priva di sipari o quinte: al centro, un telone nero da sacco della spazzatura copre l’impianto scenico, epicentro di ciò che sta per accadere. Quando il telone viene rimosso, si svela il gioco del teatro nel teatro: un palchetto d’opera all’italiana, evocativo delle sale teatrali parigine alla moda di metà Ottocento, riprodotto fedelmente in scala 1:1.
È qui che prende posto Margherita (Anna Manella), magra, diafana, rivestita di strass, immobile come una sposa statuaria o una bambola confinata nella scatola di una Barbie. Il suo palchetto non è solo un elemento scenografico, ma una gabbia, una vetrina che sembra richiamare il Red District di Amsterdam, dove i corpi delle donne vengono mercificati, esposti come oggetti da ammirare e consumare.

Questa riduzione di Margherita a figura decorativa, confinata nello spazio limitato del palchetto, diventa una potente metafora della condizione femminile nella letteratura “fallocentrica” ottocentesca – e non solo. Montato su ruote, il palchetto agisce come dispositivo mobile, come un carrello della spesa o un bidone dell’immondizia, sempre in movimento e senza radici, perpetuamente destinato al consumo e allo scarto.
Il gioco metateatrale è continuo: la sala teatrale e il pubblico si riflettono e si ribaltano nell’alter ego del palchetto, simbolo del pubblico stesso, che si sposta e ruota sul palco.
Margherita, prigioniera nella sua teca scintillante, incarna un rituale voyeuristico spietatamente esposto da Ortoleva, che costringe gli spettatori a confrontarsi, nella loro complicità colpevole, nel perpetuare il mito della donna-oggetto, ridotta a ornamento e mai davvero libera di abitare un proprio spazio.

La scelta drammaturgica riduce la narrazione a cinque figure, trasformando i personaggi in archetipi crudi e funzionali.
Armand Duval alias Alexandre Dumas figlio, Margherita, Duval alias Dumas padre, e Prudenza e Gastone si muovono in un equilibrio precario tra realtà e metafora. Prudenza e Gastone, incarnati da Nika Persone e Vito Vicino, sono facilitatori narrativi, entità maligne che giocano con i protagonisti come burattinai subdoli. Non sono personaggi, ma dispositivi: seducono, ingannano, fornicano. I loro momenti di unisono, quasi cantati e ritmati al cardiopalma, rivelano un rigore formale e una precisione ritmica che li rendono non solo convincenti ma tanto adatti alle parti (non parti) da poter difficilmente immaginare qualcun altro vestire altrettanto bene quei vestiti.

Alexandre Dumas padre, interpretato da Gabriele Benedetti, è un’ombra costante: un becchino sciacallo che presidia la scena, inflessibile e distante; non solo è lui il padre, ma è quasi un assistente di scena, operatore demiurgico del gioco del teatro che si dispiega davanti agli occhi dello spettatore. Il suo ruolo, seppur spesso relegato al mero silenzio e al ruolo di vigile osservatore, è carico di autorità. Quando incarna con precisione il ruolo del padre Duval, la sua presenza si cristallizza in una figura austera e incombente, un patriarca che schiaccia con il solo peso del suo sguardo.
Di fronte a lui, Armand/Alexandre, il figlio, si riduce a un cane scodinzolante, un’appendice patetica e servile, un burattino la cui unica funzione è perpetuare il nome paterno.

Ortoleva affonda il coltello nella carne della relazione padre-figlio, trasformando il palco in un’arena dove si combatte l’eredità della mascolinità tossica. Non c’è spazio per redenzione o indulgenza: il figlio non può che soccombere all’ombra del padre, perpetuando un ciclo di dominio e sottomissione che soffoca ogni possibilità di autonomia. I corpi degli interpreti, scolpiti da una recitazione tagliente, diventano strumenti di questa narrazione feroce, dove ogni gesto, ogni parola è tesa, necessaria, priva di consolazione.

L’idea di stratificazione massima domina la scena come un foglio ripiegato su se stesso, moltiplicando esponenzialmente le sue facce. Giovanni Ortoleva gioca, come sempre, su questa sovrapposizione incessante, portando un testo ottocentesco alla ribalta con una rilettura inevitabilmente contemporanea e complessa.
Gli abiti stessi, apparentemente di maniera, evocano il passato ma lo filtrano attraverso un simbolismo consapevole: il bianco virginale della traviata Margherita, vittima sacrificale come un’Ifigenia in Aulide, contro il nero borghese dei personaggi maschili, colore della rispettabilità ipocrita della borghesia nascente. Tuttavia, questi costumi di facciata, insieme all’iperrealistico palchetto all’italiana, si scontrano con un impianto scenico brutale, pornografico nella sua nudità: luci LED a vista, musiche distorte ed elettroniche di Pietro Guarraccino, una scena scarna privata – come altre volte – di fondale e quinte. Non c’è illusione, non c’è protezione: il teatro si spoglia per lasciare che ogni piega del racconto si mostri nella sua crudezza.

Fra i molti momenti memorabili (non ultimi una canzone sconcia al piano e una giocata alla roulette che è puro ritmo, colori, luci e ardore), un’attenzione non da poco va restituita allo spiazzante e significativo finale, un colpo di scena brutale, un crescendo che incatena il pubblico alla sedia.
Attraverso l’ultima lettera della morente Margherita all’amato, la voce della donna prende vita, corpo, e voce (“trasumana” per dirla con Dante): il corpo di Anna Manella si scuote, si strappa dalla quiete forzata che lo ha tenuto prigioniero per tutto lo spettacolo. Lo spirito di Margherita irrompe, una voce dall’oltretomba che possiede carne e scena. Il palchetto diventa uno spalto da cui declamare un’arringa feroce, un’accusa lanciata contro Alexandre Dumas figlio, contro l’autore che l’ha marchiata, condannata a un’eternità di fragilità, a un’immagine ridotta e distorta: mantenuta, cortigiana, puttana, e mai quello che è semplicemente stata, una donna.

Margherita non risparmia niente. Dumas l’ha trasformata in un corpo vuoto, un’ombra definita solo dai desideri maschili. Non più che un oggetto, un animale in mano all’uomo borghese che la consuma, la disprezza, la racconta. Mai autonoma, mai viva, mai libera.
Solo una traccia di sangue su un fazzoletto, un letto caldo in una casa d’appuntamenti, un’immagine ripetuta e sfruttata fino allo sfinimento. Ma ora Margherita si ribella. Il suo corpo vibra di rabbia e verità. La voce che esplode in scena non chiede perdono, non concede pace. Muore e ri-muore, nel gioco del teatro e delle chiamate a bis, tra gli applausi voyeuristici del suo pubblico, rivive e muore esibendosi in lunghi strappi di inchini e morti finte.
Si riprende tutto: la dignità negata, la libertà calpestata, la vita mai vissuta, si mangia lo spazio della pagina, del teatro, la sua fetta di spazio nel mondo. Non rimane niente per il mieloso romanticismo da feuilleton, non c’è redenzione, né perdono; piuttosto, la voglia di riprendersi tutto.

Quello che Ortoleva compie, per finire, con la sua “Signora delle Camelie” non è, tuttavia, riducibile a un semplice ribaltamento teatrale; siamo di fronte ad un capovolgimento della materia, della narrazione, dell’argomento, estratto fisicamente dalla sua fossa di morte come nelle prime righe del romanzo, una riesumazione vera e simbolica. Margherita non è semplicemente riportata sulla scena, ma estratta, con precisione accorata e cinica allo stesso tempo, dalla fossa del mito che l’ha sepolta. È un corpo strappato alla narrazione per diventare ferita viva, verità pulsante, simbolo di ciò che è stato negato. E come la salma putrefatta che ossessionava Armand, anche questa Margherita si impone: non si può ignorarla, non si può distogliere lo sguardo.
Nel riportare alla luce questo cadavere, vero o figurato che sia, Ortoleva smonta il mito, lo demistifica e lo riporta alla sua sostanza: una donna, finalmente, che si riprende il proprio spazio.

E quando il silenzio cala, si spengono le luci, arrivano gli applausi – tanti e commossi  -, Margherita non è più un mito, non è più un oggetto, né un nome su una pagina. Rimane una ferita aperta. Ed è libera, anche solo un po’ più di prima, almeno per una sera, almeno per chi l’ha vista.

LA SIGNORA DELLE CAMELIE
liberamente tratto dal romanzo di Alexandre Dumas figlio
drammaturgia e regia di Giovanni Ortoleva
dramaturg Federico Bellini
scene Federico Biancalani
costumi Daniela De Blasio
musica Pietro Guarracino
movimenti di scena Anna Manella
disegno luci Davide Bellavia
assistente alla regia Marco Santi
con Gabriele Benedetti, Anna Manella, Alberto Marcello, Nika Perrone e Vito Vicino
realizzazione scene Federico Biancalani e Nadia Baldi
realizzazione costumi Daniela De Blasio, Rocio Orihuela Perea, Viviana Bartolini
in tournée
luci Alice Mollica
fonico Emanuele Morena
produzione Fondazione Luzzati – Teatro della Tosse, Elsinor – Centro di Produzione Teatrale, TPE – Teatro Piemonte Europa, Arca Azzurra Associazione Culturale
Spettacolo selezionato da Next – Laboratorio delle Idee per la produzione e programmazione dello spettacolo lombardo.
Distribuzione Gianluca Balestra / Elsinor

Durata: 1h 20’ circa
Applausi del pubblico: 5’

Visto a Genova, Teatro della Tosse, il 28 novembre 2024

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