Da Short Theatre riflettori su Teatrino Giullare e Roberto Latini

Roberto Latini|La stanza
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La stanza
La stanza (photo: shorttheatre.org)

Ore 19.
Ingresso del Teatro India di Roma.
Aperitivo.
Gente.
Teatro.
Tutti si sorridono, tutti si conoscono, tanti si abbracciano.
Tutti amici, attori, registi, critici, operatori.
Ci si diverte, ci si annoia anche, ma si sorride, tra uno spettacolo e l’altro, tra una sigaretta e l’altra, tra un saluto e l’altro, in uno spazio in cui a volte l’impressione è quella di doverci essere, e basta, aldilà del teatro.
Una delle tante serate della rassegna di successo Short Theatre 2011. Un 16 settembre estivo dall’aria frizzante. Dietro e sopra ogni cosa appare il teatro. Quel teatro spesso rifiutato dalle sale romane, “spettacoli di diverso formato e di trasversale appartenenza generazionale e artistica, di non facile collocazione sul mercato nazionale, o almeno su quello romano, sono articolati in una programmazione che permetta un virtuoso incontro tra compagnie, operatori e pubblici” specificano gli organizzatori.

Una presentazione che invita ad aprire i propri occhi al nuovo, alla ricerca, alla sperimentazione teatrale, pronti a ricevere artisti di nuova generazione, specchio di una realtà artistica italiana poco conosciuta. Questo negli spazi “non convenzionali” del Teatro India, parte del teatro istituzionale per eccellenza, Teatro di Roma, sostenuto dai finanziamenti di Roma Capitale.

Sala A bis, inizia il primo spettacolo della serata, “La Stanza”.
La compagnia è Teatrino Giullare, fondato e diretto dagli attori e registi Giulia Dall’Ongaro ed Enrico Deotti. Debutta nel 1995 al corso di Drammaturgia di Giuliano Scabia al Dams di Bologna con spettacoli classici. La compagnia si avvicina alla sperimentazione nel 2005 con il progetto “L’Artificio in Scena” di cui fa parte lo spettacolo in questione. Una messa in scena che ha riscosso grande successo aggiudicandosi la finale del Premio Ubu 2010 come miglior scenografia.
E infatti, nei primi minuti di spettacolo, è la scenografia a colpire lo spettatore. Una grande “casa” di cartone con una finestra al centro. Su di essa e su due quinte laterali bianche viene proiettata l’immagine di un palazzo. La finestra si illumina scoprendo al suo interno una stanza, piccola e claustrofobica, ma completa di ogni dettaglio. La stufa a legno illluminata, un tavolino, la porta di ingresso che si apre e si chiude mostrando le chiavi dai ricchi portachiavi appese.
Tutto è realisticamente rappresentato nella stanza, mentre fuori è solo la proiezione della realtà, fissa come una fotografia: l’immagine digitale non sembra avere altre connotazioni se non l’evidenza della sua funzione descrittiva.

All’interno si susseguono le vicende del dramma omonimo di Harold Pinter. La vita in bilico tra l’essere e il non essere, il reale e l’immaginario. Una sensazione lacerante di attesa, di quelle attese che non portano mai a nulla, se non a guardare il proprio passato durante una corsa verso la fine. Angosciante l’atmosfera in cui sono intrappolati questi personaggi, asfissiante nel suo lento incedere. Gli attori non hanno possibilità alcuna di movimento. Il volto è coperto interamente da maschere di gomma dal tipico gusto figurativo dei libri di fiabe. Lo spazio della stanza li costringe a fare al massimo due passi. Libere di esprimersi sono solo le mani e la voce, alle quali è assegnato il duro compito di sostenere l’attore nella sua performance.

Grande abilità per i due attori il dover interpretare più personaggi, indossare più volti con la velocità e la prontezza del trasformista. Immensa la capacità nell’uso della voce, da far invidia ad ogni attore radiofonico.
Purtroppo le idee originali, la bravura, lo studio dei personaggi, la grande sapienza attoriale nell’uso della voce e dei piccoli gesti non sembrano però bastare. Un’ora di spettacolo troppo spesso tedioso, una lentezza completamente rispettosa del ritmo dell’opera rappresentata, ma le scelte drammaturgiche della sospensione temporale e dell’attesa non bastano a giustificare la noia. Tutto ciò che di buono c’era nello spettacolo viene ripagato comunque dal minuto e mezzo di applausi.

Roberto Latini
Roberto Latini in ‘Noosfera Titanic’ (photo: shorttheatre.org)

Ore 20,30.
Sigaretta.
Saluti, sorrisi, ancora saluti.
Un caffè e di corsa verso la sala B.
Al suo interno Roberto Latini di Fortebraccio Teatro aspetta il suo pubblico. Seduto al centro dello spazio, vive e respira la scena come se lo spettacolo “Noosfera Titanic” fosse iniziato dall’ingresso del primo spettatore.
Il corpo pur fermo non è statico, respira il tempo che passa, vibra ad ogni impercettibile stimolo, riempie lo spazio e attrae immediatamente l’attenzione.

La scena sembra la successione arida di quella di “Noosfera Lucignolo”, il precedente spettacolo di Latini. Un quadrato bianco con una sedia al centro; laddove c’era acqua ora c’è sabbia; laddove l’uomo mostrava la sua innocenza infantile e la sua cruda ironia verso il mondo, ora l’uomo sembra essere disilluso, sconfitto, ammutolito.

“Rompete le righe, rompete le righe!”, la frase irrompe con durezza, un colpo dritto al petto, si ripercuote nei pensieri, ripetuta ininterrottamente per più di cinque minuti, immersa e poi soffocata dal crescendo sonoro generato dall’arte musicale dello storico collaboratore della compagnia Gianluca Misiti.
Il tutto trova la sua morte nel buio, nel silenzio. Torna la luce, quell’uomo che avevamo abbandonato urlante e straziato è scomparso, al suo posto lo stesso attore, ma un altro personaggio, chino, succube, che tranquillizza chi con lui: “Non è niente, è un incidente, restiamo qui, insieme, non è niente”.
I palmi delle mani protratte in avanti, la tragedia ha avuto inizio, non c’è nulla da dire, non c’è nulla da fare, l’essere umano è stato colpito sul nascere, interrompendo l’inizio del sogno, deviando ogni fantasia sul proprio futuro, abbandonato tra le macerie di ciò che non è mai stato. Una serie di immagini si susseguono, intervallate da pause di buio, ognuna apre una finestra in un’esistenza umana.

Dopo i primi venti minuti di spettacolo il ritmo comincia a ripetersi. L’uomo che lo spettatore visita è colui che combatte, che si arrende, che urla, che soffoca. Si ripete lo schema strutturale di “Noosfera Lucignolo”, fatto di scene brevi tagliate di netto dal buio, alternando momenti veloci pieni di rabbia a stasi di silenzi assordanti, con l’apparizione dal fondo di una figura umana misteriosa, una presenza beffarda.

Il testo viene asciugato eliminando il superfluo, un testo fatto di metafore, suoni, in cui la parola non è l’unico mezzo per trasportare significato, ma solo un puntino fra i tanti elementi provenienti dall’attore e la sua interazione con lo spazio. Una ripetizione di schema portata alle estreme conseguenze, che pone la domanda se tutto ciò non sia una provocazione, una sfida, il personaggio afferma che “è stato già detto tutto”. A chi si riferisce? Alla condizione del teatro in genere, ai teatranti-performer, al teatro di ricerca piuttosto che a quello di parola? Oppure è semplicemente l’affermazione di un personaggio che rapprenta la perdita di obiettivi, di orizzonti, un uomo che si è scontrato con l’iceberg della realtà del nostro tempo?
Una qualche risposta la dà lo stesso Latini (e inevitabile viene anche accostarla alla situazione del Teatro San Martino di Bologna che lui dirige): “Prima ancora delle guerre mondiali, col Titanic sono naufragati lo spirito e l’aspirazione di un’intera civiltà. Una specie di incosciente e incolpevole suicidio collettivo come l’inaspettato errore di sistema che sospende la serra delle nostre relazioni.
Essere attori di questo Teatro è come essere saliti sul Titanic.
Mentre la nave affonda, mentre tutto intorno cade giù, mentre non si capisce mai se quello che tocchiamo è ormai il fondo o se il fondo in fondo non c’è mai, noi, da anni, anni, anni, tutti i giorni, tutti, noi, noi tutti, suoniamo, suoniamo e continuiamo a suonare”.

Due spettacoli, in qualche modo uno l’opposto dell’altro: da una parte la parola che sovrana detta le regole del gioco, stabilisce il senso, crea atmosfere e personaggi; dall’altro il corpo dell’attore che prosegue “a suonare” nonostante il naufragio sia iniziato, ormai da molto.

Fuori dalle sale, fuori dai quadri scenici, dai personaggi e dalle loro vite, il pubblico particolare della rassegna Short Theatre, spettatori d’élite, occhi fin troppo allenati ai linguaggi teatrali, operatori del settore e critici, attori e registi, tra una sigaretta e l’altra conversano, si salutano, si sorridono. Mentre il Titanic continua ad affondare.

La Stanza
di Harold Pinter
traduzione: Alessandra Serra
interpretato, diretto e costruito da Teatrino Giullare
scene e maschere: Cikuska
una produzione: Teatrino Giullare / CSS Teatro stabile di innovazione del FVG
durata: 60′
applausi del pubblico: 1′ 30”

Noosfera Titanic
di e con: Roberto Latini
musiche e suoni: Gianluca Misiti
luci: Max Mugnai
aiuto tecnico: Nino Del Principe
organizzazione e cura: Federica Furlanis
promozione: Nicole Arbelli
produzione: Libero Fortebraccio Teatro San Martino
durata: 45′
applausi del pubblico: 2′ 30”

Visti a Roma, Short Theatre, il 16 settembre 2011

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