Un progetto collettivo che vede in scena, oltre alla regista, Paolo Musio, Monica Piseddu e Gabriele Portoghese
Daria Deflorian ha presentato a Romaeuropa Festival “La Vegetariana”, traduzione scenica dell’omonimo romanzo di Han Kang, scrittrice sudcoreana da poco insignita del Premio Nobel per la Letteratura. La narrazione scenica è fedele alla pagina scritta, con un riadattamento curato da Deflorian e Francesca Marciano, reso vivo e presente agli occhi del pubblico grazie alla collaborazione dell’intero gruppo di lavoro, dagli attori fino ai consulenti.
Il primo approccio allo spettacolo si ha a scena aperta, che presenta al pubblico un ambiente squallido, impersonale e vuoto. Lo scenografo Daniele Spanò presenta abilmente tre pareti sudicie e due porte a vetri. Un luogo vuoto e tristemente solitario che, per l’intero spettacolo, rifletterà le altrettante solitudini e le voci, spesso inascoltate, dei personaggi attraverso i cambi luminosi e proiezioni analogiche.
La scena traduce quindi perfettamente gli umori che animeranno lo spettacolo, guidando lo spettatore verso uno stato d’animo dai contorni grigi, con rare esplosioni vivide. Un elemento che viene confermato fin da subito dall’ingresso del marito, magistralmente interpretato da Gabriele Portoghese, il primo dei tre personaggi che accompagneranno la narrazione. La sua avviene in prima persona, per essere poi seguita dalla terza persona usata dal cognato (Paolo Musio) e dalla voce della sorella maggiore (la stessa Deflorian), che racconta dal suo personale punto di vista ciò che accadeva alla sorella.
Una storia in tre atti, nel rispetto di una classica struttura aristotelica che, impeccabile, matura – attraverso tempi dilatati e sostenuti – il pensiero dello spettatore sul racconto. E’ così che si snoda – con un ritmo costante, evocativo e un linguaggio dai toni cupi ma estremamente toccanti – la metamorfosi dall’umano al sacro.
La protagonista intorno a cui ruotano tutti i personaggi, intrappolati nei rispettivi ruoli sociali e familiari, è Yeong-hye, giovane casalinga rispettosa e diligente, dai contorni indefiniti e grigi. Il marito la definisce da subito mediocre, senza nulla di speciale, una mediocrità nella quale si rispecchia e si sente protetto, lui stesso uomo medio, privo di doti o vocazioni.
La moglie, fino a quel momento, aveva sempre risposto a questa ordinarietà evocata dal marito con altrettanta banalità, così da rassicurarlo. Tuttavia un sogno costringe la donna a gettare tutta la carne dal congelatore, e a interrompere la dieta carnivora. Da quel momento in poi la donna sconvolgerà marito e famiglia con la sua scelta di essere vegetariana, notizia che arriva come un fulmine incomprensibile per il marito. Da subito si intuisce tuttavia che la donna è colpita da un dolore e da una necessità molto più profondi di una semplice scelta “culinaria”. Poco alla volta diventerà il fantasma della precedente sé stessa, avviandosi verso una metamorfosi che coinvolgerà ogni sua parte esistenziale, fisica e spirituale. Uno strappo che, come un’incrinatura nel vetro, non potrà fermarsi e camminerà fino a romperlo.
L’adattamento teatrale di questo testo “immenso”, come lo definisce Deflorian, è una storia che scava in profondità le relazioni, i rapporti tra uomo e donna, i soprusi domestici ed echeggia violenze lontane. Un racconto poliedrico da tanti punti di vista, in un gioco continuo tra opposti: dentro e fuori, maschile e femminile, natura e bestialità, istinto e razionalità, follia e lucidità. Ma anche un’opposizione tra coloro che vivono nel sogno e chi è immerso in una quotidianità fatta di prove da superare, ostacoli, impegni e doveri.
Il maschile viene espresso da una cruda istintualità, in cui il sesso – inteso come mero atto fisico e sfogo delle tensioni – gestisce le scelte. Il femminile sembra invece appartenere alla sfera del pensiero profondo, dei meandri dell’anima, della complessità emotiva e relazionale.
Ciò che caratterizza il rapporto tra le due sorelle è a sua volta il binomio che divide il sogno dal dovere. Un dualismo esistenziale che le legherà pur senza renderle mai davvero vicine.
Il personaggio principale si fa raccontare intervenendo di rado, ma con monologhi che squarciano il suo io aprendolo con forza a chi ascolta. Un pensiero ad alta voce il suo, senza un vero interlocutore, che echeggia con forza attraverso i silenzi.
Yeong-hye, interpretata da Monica Piseddu, è un personaggio che inizia con un corpo e termina in spirito. La metamorfosi richiesta la conduce ad un’autodistruzione se vista da fuori, e ad una sublimazione se osservata dall’interno dei suoi desideri. Quella donna ordinaria sceglie con una forza tale per sé da diventare imperscrutabile e inarrestabile. La dimensione fisica è quella che caratterizza di più la scelta attoriale per il personaggio. A volte è come un’ombra di sé, una presenza che prende forma attraverso gli occhi degli altri. In altri scivola su piccoli passi, suggerendo una lenta ma inesorabile assenza di fisicità, verso la purezza del non-essere, in contrapposizione all’egoismo dell’essere che ha subìto nella sua vita.
Ogni personaggio sviluppa il racconto dal proprio punto di vista; ognuno, attraverso Yeong-hye, rivive la propria personale crisi, che non avrebbe ascoltato se non si fosse avviata quella crepa iniziale. Il marito fugge da una situazione che lo destabilizza, ma soprattutto lo rende sterile davanti al mondo. L’assenza fisica della moglie, la negazione forte e decisa di ogni tipo di attenzione nei suoi confronti, l’assenza di accudimento, i rifiuti di tipo sessuale e istintivo, lo conducono davanti ad uno specchio che rifiuta: “Non ho voluto cedere alla tentazione di guardarmi dentro. Quella strana situazione non aveva nulla a che fare con me”. Frase che precede la sua fuga dal tetto coniugale.
La moglie sembra in parte goderne, ma di un piacere inaccettabile, onirico, intimo e silenzioso. Nuovi sogni le impediscono di sopportare ogni forma di alimentazione: la carne puzza di violenza, una violenza che conosce, subita da un padre ex militare in Vietnam; il cibo comporterebbe quindi alimentare la propria carne, accettare quella natura animale rifiutata. Una natura che ormai viene percepita come vegetale, tanto da sognare di trasformarsi in albero, nutrito solo dall’acqua della pioggia.
Il cognato, videomaker e video-artist, interviene egoisticamente, usando il corpo della ragazza e la sua particolare macchia a forma di fiore sul fondo schiena, la “macchia mongolica”, per trasformarla nella sua creatura giocattolo.
La sorella interagisce invece con la forza di una madre, cercando di salvarla, ma conosce profondamente i motivi del rifiuto di quel tipo di vita. La sorella minore non vuole infatti uccidersi, ma vivere una dimensione diversa, alla ricerca di libertà: “Come le avevo permesso di essersi liberata lasciando me indietro?”.
Lo studio sottile delle relazioni sociali, emotive ed affettive determinate dai ruoli sociali-familiari, tipici della cultura asiatica, è reso impeccabile dal lavoro creativo di gruppo e di co-creazione con la regista. A lei si deve la meticolosa scelta degli attori, non un semplice casting ma la ricerca di una dimensione attoriale in perfetta sintonia con le esigenze del progetto e di similitudine professionale.
Monica Piseddu fa emergere una ricerca sulla presenza del corpo, sull’assenza in presenza e una voce che scava nella profondità, trovando le giuste note emotive, vibrando fuori da un corpo esile e filiforme con un tono in contrasto e allo stesso tempo in piena armonia con esso.
Gabriele Portoghese intraprende un viaggio vocale tra il monotonale, tipico della mediocrità del personaggio, e la forte ironia, causata da un egoismo comunicato con picchi di vivacità. Paolo Musio indaga un personaggio complesso, immerso nel desiderio egoistico, nell’illusione e nel pensiero narcisistico. Ogni sua azione riflette il sé, pur parlando in terza persona. La postura e la qualità vibrante della voce lasciano emergere tutte le insicurezze e i desideri di rivalsa di un personaggio mediocre. Daria Deflorian riveste il ruolo della sorella maggiore, in cui il femminile viene esaltato dalle diverse dimensioni del personaggio. Davanti ai nostri occhi abbiamo quindi la donna madre, nella condizione domestica dell’accudimento non solo del figlio piccolo, ma anche del marito. Una sorella caratterizzata inizialmente dalla velocità delle azioni, necessarie e pratiche, con dialoghi apparentemente vuoti col marito, il tutto interrotto da lentezze e immobilità. Un personaggio, quello della Deflorian, che accompagna la definitiva acquisizione di senso dell’intera narrazione scenica. Una chiave di svolta che solo nel finale si mostrerà con chiarezza.
Lo spettacolo lascia lo spettatore, dopo due ore ritmicamente ben distribuite, con tante riflessioni. Prima fra tutte quella sulla scelta di una libertà non facilmente concepibile, perché fuori dalla dimensione umana. Le sensazioni maturano accavallandosi tra loro: dalla rabbia per la violenza umana, allo sconforto per le esistenze inermi e le vittime innocenti, ma anche il desiderio di ribellione e il suo opposto, l’amore verso la natura salvifica e la pace, nel senso più ampio del termine.
“L’umanità è dannosa, assassina, violenta, tutte cose che Yeong-hye non vuole essere – afferma Deflorian nella presentazione dello spettacolo – Lei non vuole smettere di vivere. Vuole smettere di vivere come noi”.
LA VEGETARIANA
co-creazione Daria Deflorian, Paolo Musio, Monica Piseddu, Gabriele Portoghese
regia Daria Deflorian
aiuto regia Andrea Pizzalis
scene Daniele Spanò
luci Giulia Pastore
suono Emanuele Pontecorvo
costumi Metella Raboni
consulenza artistica nella realizzazione delle scene Lisetta Buccellato
collaborazione al progetto Attilio Scarpellini
direzione tecnica Lorenzo Martinelli con Micol Giovanelli
stagista Blu Silla
per INDEX Valentina Bertolino, Elena de Pascale, Francesco Di Stefano, Silvia Parlani
una produzione INDEX
in coproduzione con Emilia Romagna Teatro ERT / Teatro Nazionale; La Fabbrica dell’Attore – Teatro Vascello in corealizzazione con Romaeuropa Festival; TPE – Teatro Piemonte Europa; Triennale Milano Teatro; Odéon–Théâtre de l’Europe; Festival d’Automne à Paris; théâtre Garonne, scène européenne – Toulouse
con la collaborazione di ATCL / Spazio Rossellini; Istituto Culturale Coreano in Italia
con il supporto di MiC – Ministero della Cultura
durata: 120’
Visto a Roma, Teatro Vascello, il 3 novembre 2024