Il luogo è l’Abbazia di Valserena, subito fuori Parma: campi di frumento e girasoli, la pianura attorno, memoria di secoli di vita contadina, un lago con le ranocchie, il laterizio e la roccia che segnano i corpi degli edifici. L’argomento è “La vita è sogno” di Pedro Calderón de la Barca; il nome è quello di Lenz Fondazione, Maria Federica Maestri e Francesco Pititto; il contesto è Parma Capitale della Cultura 2020/2021.
La messinscena, ultimo atto del quadriennio dedicato dal gruppo parmigiano al più noto autore del Siglo de Oro (nel 2020 vedemmo “Hypògrifo violento” e “Altro stato“, quest’ultimo invitato alla Biennale di Venezia), si svolge su tre dei quattro lati esterni della chiesa dell’Abbazia. Gli attori sono dieci, quattro i cantanti, due soprani, un contralto, un tenore. Traduzione, drammaturgia e imagoturgia dello stesso Pititto, che lavora sul suono, lasciando sopravvivere spagnolismi e coltivando assonanze, e sull’emersione del protagonista Sigismondo come figura Christi, anche attraverso l’interpolazione di brani dalla “Passione secondo Matteo” di Johann Sebastian Bach.
La forza progettuale di Maestri e Pititto è totale, implacabile. Tutto il lavoro sembra nascere da un’operazione intellettuale perseguita con strenuo rigore, una struttura piombata, distribuita in uno spazio scenico irresistibile, segnato dai grandi spazi del campo e dalla mole dell’Abbazia che si erge inattingibile, puro seducente fondale. Un’operazione che rifiuta compromessi, molteplice nei segni e nelle simbologie, negli strumenti adoperati, scelti con precisione e più per accumulo che per selezione.
A tale sicurezza, però, è applicata una particolare forma di prudenza, come se a ogni atto creativo corrispondesse un atto difensivo, un istinto di “messa in sicurezza” che tutela l’intera operazione, folle e visionaria a prima vista, ma, a uno sguardo più attento, controllata e autoprotettiva come le spesse pareti di Valserena.
L’andamento è quello oscillatorio tra l’avanti dello scandalo e l’indietro della cautela, a partire dal testo. È, questo, un Calderón rimaneggiato anche con brutalità (lo scandalo: si inserisce, oltre a numerosi versi, il personaggio edipico della madre Clorilene ed è espunto quello di Astolfo) ma rimane quel testo letterario, non si ambisce della creazione ex-novo (qui la cautela), e si puntella ulteriormente col ricorso agli intermezzi musicali bachiani.
Se l’opera originale è mantenuta, è però posta sotto il segno di un unico registro performativo, quello dell’ossessione, del parossismo (nuovamente lo scandalo). Il discorso è continuamente scagliato, la sintassi e il senso sono frammentati dagli attori a colpi netti e, così disarticolati, sono resi spesso irraggiungibili nel loro significato complessivo. È un lavoro contro il versante del significato del testo, o un rifiuto di affrontarlo nelle sue pieghe letterali (cautela)?
È probabile che tale ambiguo atteggiamento non sia obliterazione del testo o mero cliché esecutivo, ma suo superamento (nuovo scandalo): ogni indicazione presente nelle battute calderoniane è tradotta da Lenz nella forma strutturatissima della sua messinscena, si trasfonde completamente in essa – performer, scena e costumi, non-ritmo – lasciando il testo come orpello tutto sommato secondario di fronte al castello del progetto-Lenz. Questa forma strutturata è la forma di Lenz, nota al suo pubblico, stabile, riconoscibile (cautela).
I performer: la loro diversa provenienza (professionisti, non professionisti, sensibili, provenienti da percorsi di cura e autoaiuto – lo scandalo) mette in crisi lo spettatore. Egli è sbalestrato e costretto a richiamare continuamente a sé la propria rete interpretativa, a seconda di chi prenda parola o si muova sulla scena. Ma è una crisi che si presta a essere superata con una chiave troppo comoda: chi guarda può porsi dietro il vetro dell’essere “altro” rispetto a chi agisce, tanto da rischiare la distanza, l’indifferenza – nuovamente, la mancanza di giudizio, lo stare in sicurezza, la cautela.
I costumi (calze infilate sopra i fuseaux, tute aderenti scollate, loriche di plastica, caschi da pugilato, grandi lenzuoli bianchi, un finto ventre di donna gravida), la scenografia (letti cigolanti, tra il dormitorio e la corsia di ospedale, cumuli di guanciali e materassi, il relitto di una vettura), la dinamica stessa della scena (la presenza contemporanea degli attori in scena, le posizioni icastiche e impietose, i profili insistiti da tableaux vivant, una certa ieraticità, l’anafora dei gesti, la meccanicità eterodiretta), tutto ciò urla l’appartenenza a un linguaggio esplicitamente antinaturalistico che pretenda di scuotere (lo scandalo). Ma più che essere orrido o perturbante, quest’insieme di scelte dichiara, con esemplare freddezza e senza trasporto, solo l’intenzione di quell’orrido e di quel perturbante, rifacendosi a una tradizione ormai musealizzabile del teatro “sperimentale” – nuovamente cautela.
Tutto ciò, questo movimento oscillatorio, è quello che possiamo chiamare “lenzizzazione” di Calderón. Ma qual è, in questa oscillazione tra scandalo e cautela, il punto preciso in cui possiamo attraversare l’arco del pendolo, spingere il nostro sguardo al di là bucando un fondale preparato al dettaglio, verso qualcosa di nuovo, di vivo?
Un’inquietudine monta, camminando su quel perimetro attorno al comodo (per quanto tecnicamente impervio) sito di allestimento. Ci accorgiamo che questo “La vita è sogno” si sta svolgendo su una frontiera, quella tra il fuori, il campo attorno all’Abbazia, e il dentro, l’Abbazia stessa – ma anche il palazzo del re di Polonia di Calderón o la torre di Sigismondo. È un confine che potremmo paragonare a quello tra il sicuro stile delle menti progettuali dei due creatori, il loro imperturbabile repertorio di forme, e lo spazio fuori, tutto ciò che “non è Lenz”, che scorrazza disordinato, ma teoricamente escluso, nel prato antistante, dove ci troviamo noi e dove respira la realtà. A ben vedere, il vero confine, il vero limes da rintracciare e attraversare non è quello tra il testo di Pedro Calderón de la Barca e la lettura “eretica” di Lenz, ma tra la risultante di questo incontro, che potremmo chiamare “Calderón-Lenz”, e ciò che non riesce a restarvi ingabbiato, ciò che evade dalle maglie dei due creatori, dalla rigidità della loro posizione di interpreti.
Il confine tra questa strenua volontà di ordine di Pititto e Maestri e le buche sul prato, l’errore tecnico, la puzza di stallatico che assale improvvisamente il tramonto, le zanzare, le pallonate un po’ troppo focose degli adolescenti Daniel Gianlupi e Lorenzo Davini, i pensieri degli attori mentre aspettano la loro scena, la figura alla Nosferatu di Antonio Bocchi che oscilla sopra dieci materassi, in pericolo di caracollare, la glottide asciutta di Paolo Maccini e qualche vuoto di memoria o ritardo nel dare i microfoni, insomma tutto ciò che da questo atto di tirannide creativa sfugge, evade, scivola via è il valore di quest’esperienza parmigiana. Cioè poi il valore del teatro, in cui la realtà emerge a dispetto e grazie alla finzione. Se solo fosse piovuto, durante lo spettacolo!
E invece il cielo si mantiene sereno e alla nostra richiesta ci informano, mentre ci allontaniamo dopo gli applausi, che la porta della chiesa di quell’Abbazia di Valserena, attorno alla quale abbiamo peregrinato, è tenuta chiusa a chiave.
LA VITA È SOGNO
da Pedro Calderón de la Barca
Traduzione, drammaturgia, imagoturgia | Francesco Pititto
Installazione, involucri, regia | Maria Federica Maestri
Musica | Claudio Rocchetti, Johann Sebastian Bach
Interpreti | Valentina Barbarini, Antonio Bocchi, Tiziana Cappella, Lorenzo Davini, Daniel Gianlupi, Paolo Maccini, Agata Pelosi, Sandra Soncini, Carlotta Spaggiari, Barbara Voghera
Cantanti | Debora Tresanini (soprano), Elena Maria Giovanna Pinna (soprano), Eva Maria Ruggieri (contralto), Davide Zaccherini (tenore)
Cura Elena Sorbi Organizzaziome Ilaria Stocchi, Loredana Scianna
Ufficio stampa, comunicazione Michele Pascarella
Tecnica Alice Scartapacchio, Lucia Manghi, Giulia Mangini, Fabrizio Fini, Marco Cavellini, Elisabetta Zanardi, Fulvio Galvani, Luca Moncaleano
Produzione Lenz Fondazione + Festival Natura Dèi Teatri
Progetto per Parma Capitale Italiana della Cultura 2020+21
realizzato con il patrocinio e il contributo del Comune di Parma
durata: 1h 40′
Visto a Parma, Abbazia di Valserena, il