Laura Marinoni: io, Blanche, nelle mani di Latella

Un tram che si chiama desiderio|Laura Marinoni|Laura Marinoni in Un tram che si chiama desiderio
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Laura Marinoni
Laura Marinoni (photo: Fabio Lovino)
Non ha bisogno di presentazioni Laura Marinoni, protagonista dell’ultimo luminoso lavoro di Antonio LatellaUn tram che si chiama desiderio”.
L’abbiamo incontrata di fronte alla rocca sforzesca di Imola, in occasione della fermata cittadina del “tram”. Ne è nata una lunga chiacchierata che pubblicheremo in due puntate.

Come è nato il progetto di mettere in scena quest’opera di Tennessee Williams?
Mentre stavo pensando al personaggio di Blanche, un regista che per me è come un fratello stava facendo altrettanto. Più che una coincidenza, è una specie di miracolo. Lo spettacolo lo abbiamo costruito insieme, ciascuno nei limiti della propria professione e della specificità del proprio ruolo. Ogni giorno ci scambiavamo e rielaboravamo proposte, idee, sensazioni e stimoli. Insieme davamo forma all’argilla.
Antonio aveva idee molto chiare. Ha scelto per la parte della protagonista un’attrice molto distante dall’immagine che tutti quanti abbiamo nella mente. Anziché partire dall’icona, che purtroppo o per fortuna è Vivien Leigh, il processo muove da un’attrice con caratteristiche diametralmente opposte, coinvolgendo una donna, prima che un’attrice, disposta a mettersi a nudo e a intraprendere un percorso verso l’interno invece che verso l’esterno.
Puntare su tipologie formali e caratteristiche fisiche così distanti da quelle previste per la parte è già una dichiarazione di intenti, denuncia preventivamente la volontà di costruire un personaggio e uno spettacolo lontani da formule consuete.
È stato un percorso molto duro, perché Antonio mi ha tolto tutto: il costume, il trucco, il parrucco, i vestiti, gli oggetti. Mi ha tolto la possibilità di creare un personaggio comodamente seduto sui cuscini del divano. In più mi ha infilato un tacco dodici e mi ha messa sovraesposta in proscenio, mentre Blanche vive tra luci di candela.

E odia “la luce delle lampadine nude”.
Bisognerebbe schiaffeggiare Antonio. Queste cose non le sapevo quando ho firmato il contratto. Non sapevo che tipo di lavoro avesse in mente. Lui è sempre molto misterioso, non dice mai niente. Sa solo che io sono più matta di lui. Quando ho capito che non avrei avuto determinate armi a disposizione, ho incassato il colpo ma non mi sono scoraggiata. Perché mi fido molto di Antonio e so quanto lui mi ami. Mi sono messa nelle sue mani, perché sapevo che avrebbe avuto la cura di scegliere la cosa giusta, per il suo spettacolo e per me.
Già in lettura si è tracciata una strada di assoluta sobrietà. Antonio diceva di voler vedere il grado zero del personaggio. Gli interessava capire chi fosse Blanche prima degli eventi descritti dall’azione e chi sarebbe stata una volta consumato il dramma.
L’idea centrale della messinscena è di immaginare che quanto stia accadendo sia una proiezione della sua memoria, una cosa già vissuta. Partendo dal finale dell’opera, in cui la protagonista sarà trascinata in manicomio, Antonio si è chiesto come fosse continuata la sua vita. Se fosse morta o meno in manicomio. Questa indeterminazione di fondo ha fatto innamorare Antonio del personaggio di Blanche e del testo di Tennessee Williams.
Mi ha raccontato che quando ha cominciato lavorare a questo progetto, aveva in mente un’immagine pirandelliana: lei vecchia, nella sua casa, immersa tra i ricordi.
Per amore verso questo personaggio, ha voluto salvarla e immaginare per lei una sorta di risarcimento. È lo stesso amore di Tennessee per sua sorella Rose e probabilmente di Antonio per me. Da questa premessa nasce il finale dello spettacolo, dove troviamo Blanche al sicuro tra le braccia del dottore. Un parziale risarcimento per chi ha sempre “avuto fiducia nella gentilezza degli sconosciuti”. Quello che ritengo più straziante, e che più di ogni altra cosa mi commuove, è il suo desiderio di essere amata, che la spinge a innamorarsi di tutti: di Mitch, di Stanley, del ragazzo del latte e persino di persone immaginarie come Shep Huntleigh. Tutte le volte con la stessa fiducia.

Ha visto la Blanche di Isabelle Huppert?
Sono andata a Parigi per vedere la sua interpretazione. In un’intervista l’attrice ha paragonato quest’opera alla tragedia greca. Sono d’accordo. Non è realismo americano. Non è realismo spicciolo. È un dialogo filosofico. Dicono una cosa, ma contemporaneamente ne rispondono un’altra. Due proposizioni, una realmente pronunciata e un’altra nascosta dalle parole, convivono senza escludersi e si richiamano a distanza.
È un testo alto, epico. Per questo ho sposato interamente la sfida di non costruirne un’immagine realistica. Prendere le distanze dalle parole svela il testo.

Laura Marinoni in Un tram che si chiama desiderio
Laura Marinoni in Un tram che si chiama desiderio (photo: Fabio Lovino)
Quali sono i tratti salienti di questo lavoro?
Il lavoro di Antonio è veramente di grandissima coerenza, non è una stranezza di allestimento. È un’analisi profonda, verificata sulla scena. L’idea intorno alla quale ruota la messinscena è di illuminare un primo piano della mente di lei, mentre implode nel ricordo, cercando di mettere chiarezza nella propria vita. Fino al momento dello stupro. Una sequenza che, nel 1947, non poteva essere mostrata. Nel film di Elia Kazan, infatti, è risolta con lo svenimento della protagonista e con l’intervento del montaggio. Nella scena successiva, Stella non crede al racconto della sorella.
Nel film Blanche è addirittura incosciente. Abbiamo pensato, invece, che sia proprio il fatto di rivivere quell’attimo, a permetterle di staccarsene profondamente. Questo è possibile solo guardando di nuovo Stanley in faccia, ricordando il momento in cui, per sfinimento, uno ha avuto la meglio sull’altra.
Tutti i personaggi del testo sono molto ricchi. Io posso parlare di Blanche. Ho la sensazione che contenga decine di personaggi femminili, un ventaglio di figure che va dalla tragedia greca alla commedia raffinata inglese. In quest’opera c’è ironia, eleganza, ma anche il teatro di carne e sangue. È una spudorata confessione quella di Tennessee, un uomo sempre alcolizzato, di una sensibilità estrema, che cercava gli stessi uomini che cercava Blanche, con un bisogno infinito di tenerezza.

Qual è stato quindi il vostro compito?
Il nostro lavoro insieme è stato di mettere a nudo la componente più intima di questa scrittura. Credo che la regia di Antonio sia un gradissimo omaggio a cosa significhi recitare. L’ingresso di Blanche è prima ancora l’ingresso di Laura Marinoni, senza trucco e senza inganno, un po’ infelice nei pantaloni Max Mara, che non sa dove andare, cosa fare e come affrontare la parte. Poi lentamente comincia a relazionarsi con le battute lette o pronunciate dagli altri attori. Un po’ alla volta la casa di Stanley e Stella diventa la mente di Blanche.
Così quando Eunice, riferendosi alla loro abitazione, ha pronunciato per la prima volta la battuta: “La vede molto in disordine, ma quando è a posto è molto carina”, Antonio mi ha detto: “Quella in disordine sei tu. Sei tu che devi capire”.
Cominciare il lavoro senza un sostegno apparente ti impedisce per prima cosa di mentire. È paradossale che Blanche viva di menzogne e dica solo la verità, come è paradossale che viva tra le candele e sia illuminata da un faro da 5000 watt.
In questo lavoro tutto è pensato in modo scientifico, puntando su un’attrice con precise caratteristiche e, quindi, su una precisa linea di esposizione. Tutto è filtrato dal ricordo, gli altri personaggi sono proiezioni del personaggio al centro della vicenda. Le altre voci fanno da contraltare alla voce guida, che deve essere limpida come una confessione. Fragilità e forza in questo contesto vanno insieme. Così ho impostato i monologhi della protagonista come una confessione. A questo punto subentra una questione legata al concetto di equilibrio, perché se l’attore si concede in modo troppo appassionato, non funziona e risulta sgradevole.

La limpidezza è una caratteristica della scrittura di Tennessee Williams che amo molto.
È una delle caratteristiche più importanti, che dà la dimensione dalla sua grandezza, soprattutto se pensiamo che ha scritto “Il tram” – all’inizio si chiamava “The poker night” – di getto, in meno di un mese, dopo il trionfo dello “Zoo di Vetro”, dopo il premio Pulitzer, dopo il successo che lo aveva portato dagli alberghi di quinta categoria alle suite di lusso. Ha scritto questo testo disperatamente, perché gli apparteneva in modo profondo. Lui è Blanche, e lui è questo testo. Ho la sensazione che potrei farlo per trent’anni. Tutte le sere troverei qualcosa di diverso e di nuovo, perché viaggio su un testo fenomenale. In circostanze di questo genere, se un attore ha un po’ di talento, può davvero levitare. Questo non succede molto spesso.
Da alcuni giorni mi sto divertendo a lavorare sulla femminilità della protagonista, nell’asciuttezza dell’impostazione, senza leziosità. In un contesto in cui la didascalia recitata descrive un personaggio che si abbottona la camicetta, mentre l’attrice resta immobile. La regia mostra in questo modo le infinite possibilità di gestione dei materiali che compongono un’opera drammatica, le infinite possibilità recitative delle parole di un testo.

Un tram che si chiama desiderio
Un tram che si chiama desiderio (photo: Fabio Lovino)
Veniamo al rapporto degli attori con l’impianto scenografico e l’imponente disegno luci.
Quello che si costruisce è davvero un gioco molto erotico. È come se la tenda immaginata da Tennessee Williams per separare il letto di Blanche dall’alcova di Stanley e Stella ci fosse veramente. In termini realistici, sarebbe un elemento difficilmente riproponibile su un palcoscenico del terzo millennio. Malgrado la mancanza, la sua presenza è una sensazione palpabile. Per scherzo durante le prove dicevo a Vinicio [Marchioni alias Stanley, ndr]: “Quando mi chiederanno come mi sono trovata con Vinicio Marchioni, io dirò che non l’ho neanche visto”. In effetti c’è tra noi un faro da 5000 watt e non ci vediamo. Parliamo, senza vederci. Questo crea erotismo. Abbiamo raggiunto un livello d’ascolto tale da poterci abbandonare alla realtà dell’evento, all’estemporaneo, nutrendo di questo la nostra interpretazione. Se, ad esempio, mi capita di cambiare leggermente un’intonazione, Vinicio si adegua e mi risponde a tono. Per gli altri e per me vale la stessa cosa. Questo alza molto il livello a cui si gioca la partita, prima di tutto fra noi attori, e questa è la cosa di primaria importanza, poi in relazione allo spettatore. È la qualità dell’ascolto a rendere possibile che lo spettacolo sia tutte le sere diverso e nuovo.
Se tale atteggiamento può creare momenti di confusione nel pubblico, mediamente impedisce a noi e agli spettatori di distrarsi: o entri e giochi la partita, o vai a casa. C’è della gente che rifiuta tutto questo, e forse è giusto così: “Perché mi disturbi? – dicono – Sono venuto qui per state tranquillo, al buio, digerire e magari addormentarmi”. Invece Antonio chiede al pubblico di essere attore. È capitato che alcune vecchiette, inizialmente innervosite dal disegno luci dello spettacolo, alla fine della serata si siano alzate in piedi a ballare i Led Zeppelin tra applausi. Fosse anche solo per loro, la mia giornata ha avuto un senso. È bello sentire che stai facendo qualcosa che smuove le coscienze, di cui tutti parlano, piaccia o non piaccia. Questo è veramente molto bello.

— fine prima parte —
 

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1 Comments

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  1. says: Omar Missini

    Il “teatro di prosa”, nuovo rivestito makeuppato rovesciato farcito, della più straclassica delle tradizioni. la marinoni come la falk. Tutto questo è di una noia mortale. Sentirla parlare di cura del personaggio quando vederla è sempre la stessa cosa… al cinema penso potrebbe funzionare meglio.