Sentirsi vecchi eppure mai adulti. Lavorare stanca di Matilde Facheris

Lavorare stanca
Lavorare stanca
Matilde Facheris in Lavorare stanca
La verità e insieme l’ironia con cui un attore sa ritrarre un personaggio e l’abilità con cui riesce a dargli un corpo e una gestualità anche complessa, con una spontaneità tale che non si può non credere che il personaggio viva effettivamente lì sulla scena, sotto gli occhi rapiti del pubblico, è ciò che più di ogni cosa fa amare il teatro.
Questo grande e raro talento è una delle tante virtù di Matilde Facheris, attrice che, ad una spiccata predisposizione per il comico e ad una straordinaria versatilità corporea, unisce una profonda sensibilità umana e la capacità di uno sguardo intelligente sulla realtà che ci circonda.
Per questo, a un pubblico purtroppo sempre più abituato ad annoiarsi in teatro, le sue esibizione strappano invece risate franche, intensi momenti di commozione e lunghi applausi a scena aperta.

Con lo spettacolo “Lavorare stanca”, vincitore del Festival Anteprima89 – edizione 2011, replicato in occasione del festival Work in Progress organizzato dal Teatro Ringhiera di Milano, Matilde Facheris racconta la degenerazione del concetto di lavoro nella società contemporanea attraverso un monologo in cui coraggiosamente confessa prima se stessa e la sua vita nel teatro all’insegna della precarietà, e poi i pensieri di un onesto lavoratore che, pressato dai nuovi sistemi manageriali, sceglie la via del suicidio come difesa e insieme opposizione alla strada della crudeltà in cui si cerca di imboccarlo.

Nella prima parte ecco allora l’autobiografica e rocambolesca vita di un’attrice che, pur dibattendosi in mille impegni professionali, non riesce a percepire uno stipendio decoroso, né a raggiungere una minima stabilità, sentendosi vecchia anzitempo per la fatica patita, eppure allo stesso tempo mai adulta per un’esistenza sospesa, condotta sua malgrado.
Questo quadro rivela man mano, dietro la maschera della comicità grottesca, la via dell’alienazione in cui si incammina in realtà ogni precario: la rinuncia del diritto ad una vita normale, la negazione forzata della progettualità, l’emarginazione sociale dovuta alle mille privazioni cui ci si deve costringere, comprese quelle sentimentali, la perdita del diritto alla maternità (che in una donna assomiglia pericolosamente alla perdita dell’identità psicologica e sessuale), e infine il tempo, vissuto come giudice del proprio fallimento e poi come padrone cui sacrificare se stessi. Ma, soprattutto, la complicità con cui infine accettiamo questo stato delle cose e acconsentiamo a demolire la nostra quotidianità, la sfera privata e quella affettiva, per soddisfare le esigenze di un lavoro sempre più affamato di tempo, senza che in realtà ci restituisca nulla: è questa, forse, l’ultima degradazione che ci costringe infine a fermarci, sdegnati, per ripensare radicalmente alla nostra esistenza. Urge riscoprire il valore della vita, e restituire ad essa il tempo, perché ad essa in realtà appartiene.

L’immagine metaforica della corsa è il perno intorno cui si sviluppa il secondo momento dello spettacolo: la vita di Michel Deparis scorre attraverso le sue parole con il ritmo regolare di un esercizio quotidiano (e di un onesto lavoro da impiegato) concepito per temprare il corpo e lo spirito, destinato tuttavia a mutarsi in un movimento meccanico estenuante, che respingerà infine lo stesso Michel fuori dalla vita.     

E’ la storia vera di un dipendente di France Telecom che, seguendo il destino di tanti suoi colleghi,  vira verso il suicidio. Le ragioni sono solo nel lavoro, confessa lo stesso Michel.
Il lavoro nobilita, si diceva un  tempo, ma ora il concetto appare del tutto superato: il lavoro è divenuto una discriminante tra chi ha potere e chi deve subirlo; chi osserva dall’alto e chi è schiacciato da nuovi meccanismi che non solo annullano i diritti conquistati attraverso faticosi decenni di lotte sociali e faticosissimi secoli di progresso civile, ma cercano di riportare l’uomo al di fuori dei valori della dignità umana, per riveder sorgere istinti di competitività e prevaricazione selvaggia, attinti proprio da quella parte primitiva e oscura dell’essere umano che il progresso civile aveva stemperato grazie alle conquiste sociali, la solidarietà umana in primo luogo.

Il suicidio appare così non come una sconfitta, bensì come la scelta libera di chi decide di sottrarsi al cinismo irresponsabile di una nuova classe manageriale, che pretende di piegare le vite degli altri alla propria avidità pigra e parassitaria.

Sebbene l’evidenza della tragedia rimanga impressa nello spettatore, lo spettacolo riporta negli ultimi minuti una luce di speranza: è possibile reagire all’ingiustizia immaginando un mondo e una realtà alternativi, in cui i valori autentici si riscattino e dichiarino apertamente il proprio diritto a esistere. Perché anche la rassegnazione è imposta da chi ci vorrebbe schiavi.

Il taglio registico dello spettacolo sceglie una scena scarna e pochi elementi scenografici, lasciando sempre in primo piano un’interpretazione attoriale forte ed energica, e scandendo invece il ritmo scenico alternando momenti di comicità esilarante con spazi dedicati a delicate confessioni e performance musicali, eseguite dal vivo dai bravi Massimo Betti e Stefano Fascioli, che arricchiscono lo spettacolo.

LAVORARE STANCA
con: Matilde Facheris e Massimo Betti alla chitarra, Stefano Fascioli al contrabbasso
ideazione, regia e drammaturgia: Matilde Facheris
musiche originali e arrangiamenti: Massimo Betti e Stefano Fascioli
luci: Paolo Vaccani e Juan Carlos Tineo Reyes
scenografia: Andrea Cavarra
in coproduzione con: e.s.t.i.a. Cooperativa Sociale
durata: 1h 20’
applausi del pubblico: 5’

Visto a Milano, Teatro Ringhiera, il 26 maggio 2012 

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