Tavola imbandita in una corte. Trecento invitati. Un desco lungo quasi cento metri sul quale scorre, al centro, un binario d’acciaio. E’ questo il palcoscenico di “La Bonne Voie/Le Banquet”, spettacolo site specific per Teatro a Corte, pregevole e raffinato festival piemontese giunto alla terza edizione.
Corte sabauda di Pollenzo progettata da Palagio Palagi, spazio architettonico di sapore eclettico tardo gotico in cui sorge l’Università del gusto. Siamo nelle Langhe, a pochi chilometri da Alba: qui i teatranti di strada di Ilotopie presentano la loro riflessione sul cibo nel nostro tempo.
Tempo nostro, vita da cani: come animali viviamo, come bestie ci nutriamo. Distanti dagli altri e diversi da noi stessi, delimitiamo spazi vitali ma ci soffochiamo di tramezzini fra una paura e l’altra, fra una stazione di rifornimento-noia e la successiva, ingozzandoci con l’imbuto come l’anatra per il fois gras.
O c’è chi non mangia. Chi per voglia, chi per condizione. Perché ineguale è il mondo in cui viviamo. Lontani i tempi in cui Rossini diceva: “Mangiare e amare, cantare e digerire: questi sono in verità i quattro atti di questa opera buffa che si chiama la vita e che svanisce come la schiuma d’una bottiglia di champagne. Chi la lascia fuggire senza averne goduto è un pazzo”.
Chi sono questi di Ilotopie? Nati in Camargue, sul fiume Rodano, dai primi anni Ottanta fanno interventi, dal tono più o meno situazionista, in spazi pubblici. Una squadra di creativi, attori, scultori, ballerini, musicisti e ricercatori che ha deciso di vivere l’esperienza artistica come studio delle sfide individuali e sociali cui il nostro tempo ci costringe.
Hanno portato le loro performance in tutto il mondo, ospiti dei festival più importanti (ad Avignone nel 1993 e, solo in questa estate 2009, dal Principato di Monaco a Chicago, dalla Danimarca alla Germania).
Distante da quello in naftalina degli abbonati a teatro, il loro pubblico è il cittadino, preso e innaffiato di immagini e metafore incongruenti, emblema ironico delle nuove paure del nostro adesso. Esperienze dalle quali non devono essere toccati, ma dalle quali vengono proprio attraversati, simbolicamente crocifissi.
In alcuni loro interventi uomini colorati si aggirano per le vie dei centri delle città, grandi ruote di biciclette viaggiano a filo d’acqua guidate da bizzarri personaggi e auto multicolore scambiano i fiumi per strade. Disordine artistico, insomma, materializzazione di inferni alla Bosch, o di creature folli, protagoniste di contemporanee tentazioni come quelle di Sant’Antonio del pittore visionario, che a ben guardare trovano facilmente albergo nel nostro paesaggio di tutti i giorni.
Ma attenzione: i trecento commensali sono invitati a sedersi. Noi tra loro. Un maestro di cerimonie con la testa da somaro percorre al centro la lunga tavolata, suonando una campanella. Inizia la cena. Arrivano altri camerieri, sempre con la testa d’asino, che camminano su e giù per i quasi cento metri di tavolo, ogni tanto piegandosi e facendo sgorgare dal dito indice del guanto ora vino rosso, ora vino bianco. Per alcuni solo acqua. Si inizia divertiti a sorridere. Una musica ironica sottolinea l’ambiente, fra il “Sogno di una notte di mezza estate” e “Alice nel paese delle meraviglie”. In attesa di odalische che inizino la mescita di bontà straordinarie. In fondo c’è fame, la serata è fresca, temporali minacciano e uno sciacquo arriva, ma tutto passa e si può riprendere.
Dove eravamo? I camerieri somari. Dopo un po’ li vedi arrivare che tirano piccoli carri su cui sono mollemente adagiati dionisiaci efebi, che versano con le mani nei nostri piatti verdure tagliuzzate. Bello da vedere, ma qualcosa non quadra. Ma come? Avevano detto una cena, invece qui, in un disordine poetico, la cibaria a qualcuno tocca e a qualcuno no! Ad una signora continuano a versare solo acqua anche se chiede vino. A qualcuno non versano praticamente niente.
Due soldati strisciano lungo tutto il tavolo, portando nella loro mimetica sulla schiena maionese, in vassoi ricavati come fossero ferite. Ad ogni forchetta intinta segue un loro: “Ahhhhh!” di dolore. E ancora una Madame Fortune, dama del Settecento: il suo vestito è una crinolina di ferro, tutta fatta di spuntoni sui quali sono infilzate pagnotte. Stai per afferrarne una, e lei corre via. I fortunati invece ne prendono tre o quattro. E le mangiano avidamente. Verdure crude, bicchieri mezzi vuoti, solo pane. Poi arrivano signore in tailleur e ventiquattrore impegnate in conversazioni al cellulare, che di tanto in tanto aprono la valigetta e versano nei piatti delle polpette: a chi dieci, a chi una, a chi nessuna. Alla signora dell’acqua, ovviamente, nessuna. Al suo vicino, che già ne aveva avute dieci, dopo un po’ la manager in carriera ripassa e ne elargisce altre dieci.
Altri due versano ottimi raviolini (preparati dalla locale scuola di cucina), estraendoseli dalle viscere.
Lo stranimento prende il pubblico. Una chanteause accompagnata da fisarmonica e preceduta da percussioni di pentolini da cucina in rame percorre mezza tavolata vestita di pelliccia di bue. Poi se ne spoglia e sfoggia il suo vestito di bistecca di manzo. Cerca vegetariani per tagliare, sotto i loro occhi, brandelli del suo abito di carne vera, che poi tira loro nel piatto. Un San Sebastiano trafitto da spiedini di frutta e verdura. Un’altra performer indossa una crinolina cui sono appuntati i bigné. Riesco ad afferrarne uno al volo prima che corra via. Alla fine veniamo rapiti da un commando terrorista che ci spara in mano il dessert: panna dolce, mentre signorine avvenenti nascoste da mascherine di cavolo-verza iniziano una danza sulla tavola ancora imbandita.
Grottesco e parossistico senso del mondo di bestie che siamo. Il nostro tempo è malato, il rapporto col cibo ne è un riflesso. Come animali mangiamo, nutrendoci di spazzatura e avidamente cercando di più, supplicando, tendendo mani. E siamo noi, quelli del “mondo ricco”. Che lamento se invece del vino rosso ci danno il bianco!
E se per una sera restassimo digiuni? Alla fine lo pensano tutti i commensali. La cena è servita ma la visionaria lezione è dura, durissima da digerire.
La Bonne Voie/Le Banquet
di Ilotopie
in collaborazione con Cooperativa Lavoratori e Nova Coop
durata: 60′
applausi del pubblico: 3′
prima assoluta
Visto a Pollenzo (CN), piazza Vittorio Emanuele II, il 10 luglio 2009
Teatro a Corte 2009
Grazie del suo ulteriore commento. Preciso solo che non c’era nessuna volontà di essere “piccato” ma solo di aprire la sua argomentazione, che nel suo secondo contributo è più aperta e chiara. Sono contento se la “provocazione” ha sortito l’effetto di commentare oltre.
E’ interessante, e in fondo l’obiettivo di una riflessione sugli spettacoli, che il lettore ne ricavi una sua idea personale. E’ altrettanto vero che c’è una critica che si accoda, anzi su questo mi trova totalmente concorde. Ci tenevo solo a specificare che da questo lato, e mi piace includere in questo i miei colleghi di klp, questo non c’è.
Ultimo punto, raccolgo la sua risposta come spunto per un passo avanti nella descrizione dell’evento. Parlo del balletto della Bagdanova, in particolare, che entrambi mi pare di capire abbiamo visto.
A giorni di distanza, nella mia memoria, restano più forti le immagini, i colori, le implicite violenze e le grandi solitudini ingabbiate del secondo dei due spettacoli che hanno composto il dittico.
Post Engagement, neanche io sono un critico di danza anche se vedo molti spettacoli del genere, mi ha però lasciato, ripeto soprattutto nella seconda parte, un buon sapore. Ritorni con la mente alle immagini, alle sensazioni, sono sicuro che ce ne sono, e di vive, definite. Penso uno spettacolo che a distanza di un mese ritorna con alcune cose così chiaramente alla memoria, ha sortito un suo effetto, ha comunicato e non solo cromaticamente (ricorderà certamente il rosso arancio della scena) un suo sentimento. Ricorderà i vestiti dei ballerini, il loro camminare in orizzontale, la farina del finale, la bolla d’aria in cui la solitudine umana è ingabbiata. Queste cose penso le avrei scritte anche allora, consigliando lo spettacolo per un suo specifico intenso.
Oltre la competenza; cercando il confronto con un tempo, il nostro, in cui comunicare è per certo un’arte complessa e spesso più di forma che di sostanza. Difficile trovare qualcosa che ammali del tutto, al contrario saremmo ogni volta davanti ad espressioni del genio.
I geni sono distribuiti sulla popolazione attiva secondo una curva normale gaussiana, sono pochissimi, forse l’un per cento quando va bene. Quindi anche nella popolazione artistica, supponendo che forse ci sia qualche genialità in più, al massimo si potrà arrivare al 5%. Questo vuol dire, con ragionevole approssimazione, che pochissimi spettacoli possono lasciarci con il sapore del tocco di genio. E che ce ne saranno alcuni che deluderanno moltissimo.
Ma ciò non può indirizzare l’intento documentale a cui il “critico” dà vita a definire questo o quell’evento inutile, perchè l’obiettivo è che lo stesso sia rappresentativo, descrittivo. Teatro a Corte, nell’edizione 2009, ha abbinato secondo me la possibilità di vedere giovani compagnie agli esordi (progetto nuove sensibilità) confrontarsi con esperimenti artistici di sapore più situazionista o installativo, con forme di balletto sicuramente nuove e ricche di immagini, probabilmente (inculdendo anche il suo punto di vista) esperimenti per alcuni più deludenti e menno fecondi. Ma non è strano. E’ proprio quello che succede sempre, in ogni manifestazione, nella vita, nella gente. E’ il teorema della curva di Gauss. I pochissimi geniali, la gran parte normale e pochi (ma spesso più incisivi nella memoria) deludenti e inutili.
E’ vero invece che il nostro tempo studia poco, è approssimativo, si lascia vivere e non tira fuori nessuna voglia di migliorare, parla tanto e male. Si può restare digiuni, e come se si può!, si può restare zitti. Avremmo potuto farlo entrambi, ma sono contento si sia scelto di parlare e di confrontarsi. A volte serve, ed è utile.
Se le capita assista ad uno spettacolo di Ilotopie e intanto la ringrazio di avermi dato questa opportunità.
Perché risponde in maniera tanto piccata alle mie considerazioni finali?
Fortunato lei, comunque, che riesce a godere della libertà assoluta.
Un privilegio che pochissimi hanno.
Rispondo solo a questa considerazione:
“Mi chiedo dunque se il vuoto glielo ha lasciato lo spettacolo che ha visto lei, lo spettacolo che non ha visto, o il mio punto di vista sullo spettacolo che lei non ha visto.
Sarebbe più logico pensare alla prima delle tre, visto che le altre due nascono appunto necessariamente da un vuoto, quello di non aver assistito”
La prima delle tre, certamente, ma anche la terza, la “cronaca” di ciò che lei ha visto e “gustato” mi fa domandare: “E allora?” C’era bisogno di tanto “panem”? E se per una sera stessimo digiuni? (come giustamente scrive lei; infatti, ho risparmiato venti euro quella sera)….
Un commento descrittivo e aneddotico come il suo (bello comunque, come sempre, il suo disegno) getta qualche interrogativo sulla seconda delle tre alternative, facendomi dubitare che anche lo spettacolo sia “vuoto”…
Ma scusi, non è mai capitato che letto un commento su uno spettacolo che non si è visto, ci si faccia un’opinione sullo spettacolo stesso, o meglio un’impressione, che magari ci induce ad andare (o non andare) a vederlo? E’ così delittuoso, o insensato?
Ovvio che il commento altrui non può sostituire l’esperienza personale.
Chissa’ se su questo sito leggerò altri articoli su Teatro Corte ’09, magari anche negativa (strano, ma su internet – non solo su klp – non vedo molte recensioni; e le poche che ci sono raccontano sempre gli stessi spettacoli, sempre in termini lusinghieri)…
Cosa ne pensa di “Post Engagement” della Baganova? O “Il corso” di Pan.optikum?
Io li ho visti entrambi, il primo non posso valutarlo (ché la danza non mi alletta granche’ di suo), il secondo invece mi ha comunicato l’idea di vuoto (ma vuoto vuoto!) della sua recensione (ci vogliono proprio “macchine e fuoco” perche’ la gente si interroghi con/sul “il libro delle domande” di Neruda?)
“La vita è un pozzo vuoto e va rispettato il suo vuoto” scriveva la Rosselli, e, proprio perché va rispetto, secondo me questo “vuoto” non necessita di scintillanti repliche “a corte”.
complimenti per i suoi master, Phd e studi a Brera (ripeto, i suoi disegni sono molto belli)
e cordialissimi saluti
Paulo
Gentile Paulo,
se non ha visto lo spettacolo di Ilotopie, inutile parlarne come di “panem et circenses”. Meglio astenersi. Io non posso parlare di “Worstward Ho” perchè non l’ho visto, dunque prendo la sua impressione come un frammento che possa aiutarmi a intendere un qualcosa. Il mio intento era favorire una riflessione, lo stesso che aveva la compagnia Ilotopie nei confronti di me spettatore. Se lo spettacolo della Marin (cui lei penso si riferisca, pure presente nel programma di Torino) non è riuscito nello stesso intento, direi di lasciare le cose separate.
Ogni spettacolo è un’esperienza puntuale. Non penso si possa giudicare un evento avendone visto un altro. Ancor meno attraverso un articolo che ha la modesta prestesa di rappresentare un punto di vista. Non parlerei nel mio caso neanche di recensione, che è una parola che detesto abbastanza. E’ il mio personale punto di vista, una sensazione.
Mi chiedo dunque se il vuoto glielo ha lasciato lo spettacolo che ha visto lei, lo spettacolo che non ha visto, o il mio punto di vista sullo spettacolo che lei non ha visto.
Sarebbe più logico pensare alla prima delle tre, visto che le altre due nascono appunto necessariamente da un vuoto, quello di non aver assistito.
Se ritiene di voler raccontare il suo punto di vista compiuto sul buio “Worstward Ho”, lasci pure il suo appunto, sarà un contributo a leggere i vuoti e i pieni di una rassegna che, come tutte, può avere espressioni diverse, a tratti più gradite o vicine ad una sensibilità, a tratti ad un’altra, a tratti a nessuna. E’ il gioco delle parti. Da sempre.
Mi permetta un’ultima considerazione, ove lei avesse inteso includermi nel suo “la critica” che si accoda: se c’è una cosa che non ho mai fatto in vita mia è accodarmi ad alcuno o ad alcuna cosa. Se posso andare fiero di qualcosa è forse solo di questo, di una libertà assoluta, che non si è mai fatta schiava del denaro, della riverenza, della penitenza.
Cordialmente
Renzo
non ho visto questo spettacolo/installazione, ma questa recensione (e anche altre) mi lasciano una grande impressione di “vuoto”.
Tanta spettacolarità…e poi?
Mi piacerebbe sapere cosa pensate di altri spettacoli, tipo “Worstward Ho”…praticamente invisibile (almeno per me, che nella semioscurità non vedo quasi nulla). Sarei curioso di leggere la durata degli applausi del pubblico, dei buuh seguiti al finale…
Ma anche a corte, così come alla plebe, bisogna dare “panem et circenses”, magari raffinato, elitistico…pur sempre di “panem” e di “circenses” si tratta, dietro il quale intravedo, purtroppo, il vuoto.
Ma la critica si accoda…