Le parole spietate del nostro tempo. Face à face con Francesca Garolla

Francesca Garolla (photo: Lorenza Daverio)
Francesca Garolla (photo: Lorenza Daverio)
Francesca Garolla (photo: Lorenza Daverio)

Oggi, 21 luglio, il suo testo “Pour moi-même. Si je n’avais pas été Iphigénie je serais Alceste ou Médée” (che in italiano conosciamo come “Solo di me. Se non fossi stata Ifigenia sarei Alcesti o Medea”) sarà presentato al Festival D’Avignon 2015 all’interno delle giornate curate dal centro di drammaturgia La Chartreuse per Face à Face – Parole d’Italia per scene di Francia.
De La Chartreuse ci siamo a più riprese interessati, sia come centro per le nuove drammaturgie sia per la sua vocazione alla dimensione multimediale dell’arte.
Anche di Francesca Garolla KLP ha seguito costantemente la crescita come drammaturga all’interno del contenitore culturale e incubatore di nuova drammaturgia che è Teatro i a Milano.

Una storia iniziata ormai più di 10 anni fa, quando a gennaio 2005 entrava a pieno titolo nello staff del teatro partecipando alle principali produzioni della compagnia come dramaturg e diventando parte integrante della direzione artistica e socia del teatro.

Oltre ai progetti realizzati con la regia di Renzo Martinelli, che l’hanno vista coinvolta, ha firmato la regia e l’adattamento drammaturgico di “Elettra. Quel che rimane” dall’“Elettra” della Yourcenar (2006) e di “Non dirlo a nessuno”, liberamente tratto dal radiodramma di Ingeborg Bachmann “Il Buon Dio di Manhattan” (2008). Nel 2010 è autrice di “N.N.” (Nomen Nescio), in scena a Teatro i sempre per la regia di Renzo Martinelli, testo poi selezionato e tradotto all’interno del progetto Face à face – Parole di Francia per scene d’Italia, e presentato in tre teatri francesi: Le Théâtre, Scène Nationale de Saint-Nazaire Festival Ring / La Manufacture – Centre Dramatique National Nancy-Lorraine Théâtre National Populaire de Villeurbanne La Colline.

Nel 2013 scrive e mette in scena, sempre con la regia di Martinelli, “Solo di me – se non fossi stata Ifigenia sarei Alcesti o Medea”, una rivisitazione della tragedia che affronta il tema della femminilità legato a quello del sacrificio. Ed è proprio questo testo che verrà presentato oggi all’interno delle giornate del Festival d’Avignone 2015 per il progetto Face à face. L’abbiamo intervistata.

Francesca, in che modo si è formata la tua passione per la scrittura teatrale e come si è alimentata in questi anni, fino ad arrivare a questo appuntamento avignonese?
C’è sempre stata in me una forte cuoriosità per il linguaggio della scena in tutti i suoi aspetti. Cercavo un filo rosso originale, da individuare e portare alla luce in ogni lavoro. E riscrivevo. Adattavo. Seguendo le idee di regia e le parole. Poi è diventata chiara l’esigenza di trovare una solitudine che mi portasse a una scrittura completamente originale. Credo di essere quello che si dice un “autore puro”: l’autore che scrive nel silenzio della propria casa e poi, solo poi, si confronta con regia e attori. Per questo i miei testi, nonostante siano rappresentati in primis a Teatro i e da Renzo Martinelli, con il quale condivido sensibilità artistica e linguaggio teatrale, hanno una autonomia che li rende “esportabili”. E da qui nasce, credo, la mia avventura francese, prima con la traduzione di “N.N. Figli di nessuno“, presentato in tre teatri francesi nel 2014, e ora con “Solo di me” ad Avignone.

La Francia (insieme ad altre nazioni europee come la Germania, l’Inghilterra e la stessa Spagna) ha sempre avuto un’attenzione particolare alla scrittura drammaturgica contemporanea, un’attenzione che in Italia, per fattori sociali e culturali, fatica a svilupparsi. Perchè secondo te?
Recentemente ho fatto il commissario di esame per i diplomandi di regia alla Paolo Grassi e mi ha colpito come il loro percorso di studi sia ora quasi completamente incentrato sulla drammaturgia contemporanea. Stiamo iniziando a lavorare sulla diffusione dei nuovi autori; Face à Face e Fabulamundi sono due progetti particolarmente significativi, e proprio quest’anno un autore è diventato consulente artistico di un teatro prestigioso come il Piccolo Teatro.
Ma c’è una difficoltà endemica al nostro sistema: non c’è riconoscibilità culturale e spesso nemmeno economica degli autori contemporanei (se non attraverso i diritti d’autore). Le strutture che sostengono e producono la drammaturgia sono pochissime e con pochissime economie dirette, e cosi il drammaturgo spesso diventa figura “mista” per necessità, più che per scelta e competenza, e si trova a realizzare, interpretare e persino sostenere economicamente il suo lavoro. Non c’è abitudine alla scrittura originale, non c’è investimento su di essa e sul suo potenziamento.
All’estero la drammaturgia contemporanea è un aspetto fondante del teatro, e come tale è coltivato, sostenuto, sistematizzato.

Nei tuoi testi recenti pare sempre emergere in modo chiaro il confronto con il classico. Come nasce questo tema del confronto con il paradigma? Quali questioni pensi di aver affrontato in modo più efficace attraverso queste scritture?
Parlo sempre di un passaggio di eredità. Una eredità individuale, una eredità sociale e una eredità archetipa, che arriva dal mito, dalla tragedia o dal classico. Parlo di oggi con un occhio rivolto alla classicità, che ha segnato inevitabilmente il pensiero occidentale. Parlo del particolare cercando una universalità che possa risuonare.
Cosa significa diventare adulti oggi? Cosa significa essere donne? Cosa significa confrontarsi con la perdita o la mutazione di senso e significato? I miei testi non rispondono a queste domande, ma continuano ad interrogarsi e ad interrogare, anche spietatamente.

Avignone ti porta a questo evento insieme ad una drammaturga, Lucia Calamaro (di cui nel pomeriggio sarà presentato “La vita ferma”), diversa da te per molti versi, ma anche simile sotto certi aspetti. Cogli anche tu similitudini e differenze, e se sì quali sono di tuo particolare interesse? Pensi esista una tematica di scrittura di genere che vi accomuni?
Entrambe ci muoviamo nella realtà senza avere la pretesa di riprodurla, ma, anzi, trasfigurandola, entrambe approfondiamo una ricerca sul linguaggio, su una lingua che quasi sempre si muove ai margini della scrittura teatrale, a tratti monologante, sicuramente analitica; entrambe, io credo, amiamo la parola.
Detto questo non credo alla scrittura di genere, non credo al teatro di genere, non credo, in generale, che sia abbastanza parlare di genere; direi invece che sia io che lei ci muoviamo in questo tempo, siamo immerse e impregnate di questo tempo e, soprattutto, siamo alla ricerca di parole che possano indagare, anche con crudeltà, il nostro tempo. Certo, siamo donne entrambe, ma le donne sono più della metà della popolazione, è un fattore comune a moltissime persone…

A cosa guardi? Quali sono i tuoi prossimi obiettivi e progetti?
Sto concludendo la scrittura di “Non correre Amleto”, un testo che, a partire da un fatto reale ed anche autobiografico, indaga il concetto di morte stupida vs morte eroica. Cosa dà senso a una morte? Le relazioni che abbiamo con gli altri? Il suo carattere pubblico o sociale? La sua dinamica?
Il testo andrà in scena a Teatro i dal 23 settembre prossimo, con la regia di Martinelli e l’interpretazione di Milutin Dapcevic e Elena Ghiaurov. E poi ho in mente un nuovo lavoro, che indagherà il ruolo dei cosiddetti “comprimari”, quelle figure dietro le quinte che pure muovono grandi rivoluzioni, per dirla in modo teatrale, le “spalle”, personaggi secondari senza i quali i protagonisti sarebbero nulla. Mi piacerebbe anche molto fare un periodo di residenza all’estero, confrontarmi con qualcosa di inconsueto per me. Perché poi è sempre “l’altro da me” che mi nutre.

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  1. says: Barbara Godonov

    Elena Ghiaurov, una delle migliori attrici italiane, ma poco sostenuta dalla produzione indipendente. Che bello rivederla inscena in un contesto così importante e raffinato.