Noi, le serve di Genet. Intervista doppia a Matilde Vigna e Beatrice Vecchione

Beatrice Vecchione e Matilde Vigna in scena (ph: Laila Pozzo)
Beatrice Vecchione e Matilde Vigna in scena (ph: Laila Pozzo)

Le maschere, i ruoli e il potere nella regia di Veronica Cruciani

In scena da stasera, 27 febbraio, fino al 3 marzo al Teatro Stabile di Torino, Matilde Vigna e Beatrice Vecchione incarnano con grande talento “Le serve” di Jean Genet, guidate dalla regia di Veronica Cruciani.
Sul palco insieme a Eva Robin’s, è la prima volta che le due giovani attrici si misurano con un testo del drammaturgo francese. Un’esperienza importante, con una lunga tournée davanti, che ci raccontano in quest’intervista.

Come si sono articolate le prove?
Matilde: Un primo periodo risale a giugno dello scorso anno; con Monica Capuani è stato fatto un lavoro a tavolino per verificare la traduzione. In parallelo abbiamo lavorato a improvvisazioni ed esercizi per avvicinarci ai personaggi e allenare l’ascolto tra di noi. A dicembre si è tenuto un secondo periodo che ha coinvolto me e Beatrice sulla scena iniziale. Infine abbiamo fatto un mese di prova dal 2 gennaio, tra Bologna e San Giovanni in Persiceto, fino al debutto il 1° febbraio, all’Arena del Sole. Sono state prove convenzionali: siamo arrivate con la memoria, la regista ci lasciava andare a sentimento, poi aggiustava il tiro sulla recitazione. Abbiamo fatto un montaggio di massima e poi siamo scesi nei dettagli. Con l’arrivo della scenografia è cambiato tutto. C’è voluto del tempo per entrare in confidenza, per costruire la drammaturgia degli spostamenti dei case. Marta Ciappina ci ha aiutato ad acquisire una precisione coreografica nei movimenti della scenografia.

Com’è stato lavorare con Veronica Cruciani?
Matilde: Avendo iniziato a fare i miei progetti con ERT, per me è stato difficile tornare nei panni dell’attrice, sebbene sia una cosa che desideri. È stato faticoso togliere la parte “registica” dal mio cervello. Immagino che, anche dall’altro lato, non sia stato facile lavorare con me. Lo spettacolo è faticoso fisicamente, ma anche emotivamente. Attraversiamo stati emotivi intensissimi, ma ci sono anche momenti delicati. Veronica richiede molto, c’è stato tutto un lavoro di cesello su stati d’animo, emozioni e partiture fisiche. Per come sono fatta io, in quelle tinte così forti non ci sarei mai andata. Lei invece mi ci ha portato. È stato duro, ma alla fine si riflette nello spettacolo. E la risposta del pubblico è stata sorprendente.
Beatrice: Per quanto mi riguarda è stato arricchente che Veronica abbia condiviso con noi il materiale a cui lei si è ispirata. Prima d’iniziare le prove, ci ha chiesto di studiare, di cercare delle immagini… Ci ha segnalato film e testi: “Diario di un ladro” di Genet e “Santo Genet” di Sartre. Sebbene fossero testi abbastanza ostici, sono stati un valido strumento per entrare nella mentalità di Genet. Veronica ci ha detto di tenere tantissimo a questo testo e che saranno 10 anni che ci pensava; tutto questo suo coinvolgimento è stato fonte di carica. Condivido il pensiero di Matilde: Veronica è esigente, ma ciò porta i suoi frutti. Ti senti sempre sostenuta, accompagnata, non ti molla un secondo, è attenta a tutto, nei minimi dettagli. All’inizio ci lasciava fare, lavorava in ascolto delle nostre proposte, per poi costruire quel che desiderava raccontare. È stato un incontro fruttuoso. Inoltre si avvale di collaboratori molto attenti al lavoro: Ilaria Costa, assistente alla regia, precisa e presente dall’inizio alla fine. Marta Ciappina è stata preziosa per precisare il lavoro sul personaggio, per fuggire dalle genericità. É stato un lavoro stratificato che ci ha permesso d’arrivare ad una certa organicità. Il pubblico è con noi, l’ascolto è totale. Uno spettatore ha definito lo spettacolo “magnetico”, un aggettivo molto bello.

Com’è stato per voi l’approccio al testo e all’adattamento fatto da Veronica?
Matilde: L’adattamento va in una direzione precisa. Veronica ha voluto far rifare la traduzione per togliere il lirismo presente nel testo, per riportarlo sulla terra. Rimane un testo difficile da dire (meno rispetto ad altre traduzioni), molto serrato a livello di ritmo. È un testo che ti mette a contatto con l’umano, con la patologia, in maniera estrema. E pur essendo un classico, è poco rappresentato e conosciuto dal pubblico.
Beatrice: Personalmente non nutrivo grande empatia per questo testo, mi spaventava. Mi chiedevo, in modo autentico, perché questo testo? Tutta questa violenza… Andando avanti col lavoro, grazie a Veronica, Matilde ed Eva, colleghe strepitose, questa domanda ha trovato via via risposta. Noi facciamo parte della società borghese, non apparteniamo a quella fetta di società (che purtroppo esiste ancora) agli emarginati, agli ultimi. Incarnando questa realtà, ti accorgi che c’è un ultimo in ognuno di noi, ci sono anfratti di emarginazione in ogni essere umano. Tutti vorremmo che l’altro guardasse a questa parte di noi con sguardo libero, senza pregiudizi, che abbracciasse i nostri lati oscuri. “Anche tu mi fai schifo”. “Amarsi nello schifo non è amarsi”. “È amarsi troppo”. Cosa vuol dire questo scambio di battute? Le sorelle desiderano amarsi, ma non ci riescono per paura di essere uno schifo l’una per l’altra. Quindi si devono mascherare, vestire i panni di un altro. C’è l’invidia verso la padrona, che rappresenta un idolo, quello che vorremmo essere: una persona di successo, di potere. Questo ideale irraggiungibile genera nevrosi, infelicità, frustrazione, allontanamento dalla propria identità. Le serve non hanno strumenti per leggere e capire quello che stanno vivendo, l’unica cosa che fanno per liberarsi dal marcio è sfogarlo sulla sorella. Alla fine Claire, piuttosto che continuare nella disperazione, opta per la scelta più drammatica: la morte.

In che modo avete lavorato sul corpo e sul gesto?
Matilde: Alcuni momenti sono estremamente rituali. Le posture di Claire che imita Madame sono gesti iconici, ma in realtà non sono propriamente gli stessi. Quando Eva entra in scena si nota che la sua gestualità è molto più naturalistica, si capisce che quello che è stato rappresentato fino a quel momento non era lei, ma l’idea che le serve hanno di lei: un’idea distorta. Da un lato ci sono i gesti codificati che identificano il personaggio, e poi ci sono i gesti rituali, come i passi che facciamo insieme per identificare la cerimonia che avviene tutti i giorni, quando la signora esce e le serve fanno il gioco macabro di “uccidere Madame”. Poi ci sono i gesti segreti, che avvengono solo tra loro due, gesti molto piccoli che identificano la sorellanza. Infine c’è la mimesi con la signora: imitare le sue movenze, parlarle dietro le spalle. Scenicamente sono momenti d’inaspettata leggerezza…
Beatrice: C’è anche l’idea dello specchio: le serve fanno gli stessi gesti perché l’una si rispecchia nell’altra. È un rito per allenarsi all’uccisione della signora.

Le sorelle: vittime e carnefici. Com’è stato per voi approcciarvi assieme, ma anche singolarmente, ai personaggi?
Matilde: Durante tutto l’arco dello spettacolo Solange è come una pentola a pressione, potente, arrabbiata; è la sorella maggiore che vuole dominare la minore. Ma, come nella vita, le persone più aggressive sono le più fragili. Alla fine Solange è un agnellino nei confronti della forza della sorella, nella determinazione che mette nell’atto estremo. Entrambe le sorelle sono attraversate dal disagio mentale. Loro sono vittime delle circostanze, di sé stesse, carnefici di sé.
Beatrice: Per Claire, con Veronica abbiamo lavorato sul piacere, sul godimento infantile che prova nell’assumere le vesti del proprio idolo. Poi abbiamo lavorato sullo svuotamento, sul vuoto che la circonda, sul suo disagio psichico. Lacan in questo è interessante: definisce il delitto delle sorelle come paranoico e definisce il paranoico come colui che identifica il proprio malessere nell’altro, che non riesce a individuare le responsabilità delle proprie azioni. Ed è quello che fanno Claire e Solange con la signora. Veronica ci ha indirizzato verso quest’interpretazione: la signora è una persona morbida, soave, a suo modo esprime gentilezza verso le serve. Tra loro c’è quella distanza di due classi sociali agli antipodi. La signora che loro rappresentano è frutto del loro malessere psichico. Quando Claire non riesce ad ucciderla, fallisce anche il suo desiderio d’affermarsi agli occhi della sorella, di dimostrare “io valgo, esisto”. Dopo l’ennesimo fallimento, Claire crede di non avere più motivo per vivere. Il suo è un atto estremo, frutto di una mancanza di aiuti esterni, di qualcuno che possa indirizzarla verso un’altra prospettiva. Il gesto di Claire nasconde la speranza di poter vivere una vita migliore, altrove. Un modo estremo e disperato per realizzare la propria libertà.

Con Eva Robin's (ph: Laila Pozzo)
Con Eva Robin’s (ph: Laila Pozzo)

Com’è stato lavorare con Eva Robin’s?
Matilde: Meraviglioso, magnifico. Un grande animale da palco. È una persona estremamente generosa, gentile. Più grande di noi, quindi anche molto saggia, dispensa consigli preziosi.
Beatrice: Non è per niente prima donna, anzi, una grande lavoratrice, un’attrice meravigliosa. È una persona adorabile, di un’umanità pazzesca e di grande umiltà, che porta sorriso, gioia, leggerezza. Una scoperta.

Come avete lavorato all’ambivalenza del rapporto serve-padrona, ai meccanismi perversi che tengono insieme questo legame?
Matilde: Abbiamo fatto un lavoro sulla postura, sulla gestualità e sulla voce che cambia quando arriva la signora. Per quanto mi riguarda è una questione fisica. Veronica ci dava obiettivi specifici, concreti.
Beatrice: In presenza della signora le serve diventano angeliche, sorridenti, servizievoli. Nella relazione con la padrona emerge l’ammirazione che provano per lei, per la sua bellezza, che si trasforma in invidia. C’è la tentazione di toccare i tessuti dei suoi vestiti come se fossero la cosa più preziosa al mondo. Personalmente mi interrogo sul perché Solange e Claire non riescano ad ucciderla. C’è qualcosa nella signora che impedisce loro d’arrivare in fondo. È un amore/odio che loro stesse non riescono a decifrare.

Qual è la lettura che, insieme a Veronica, avete dato al testo e che volevate trasmettere al pubblico?
Matilde: Veronica è molto legata al testo, le dava la possibilità di raccontare il mestiere della serva, che lei ha visto da una prospettiva di figlia: sua madre lavorava come governante a casa di persone ricchissime. Per lei la Signora rappresenta una persona inarrivabile, intoccabile, bella, ricca, famosa, come potrebbe essere oggi, per molti, Chiara Ferragni. C’è anche un discorso sulla femminilità: i corpi umili delle serve… Madame invece non incarna una bellezza unicamente femminile. In scena indossa un tailleur-pantalone: nella visione di Veronica è Madame e Messieur assieme.
Beatrice: La Signora incarna le facce del potere, che è sia maschile che femminile. Solange e Claire giocano a chi è più forte, ma in realtà il potere lo subiscono. Tra loro e la padrona c’è una disparità totale che annulla chi è sotto.
Matilde: Questo tema è stato un fuoco per Veronica. La dinamica del potere è l’unica che le serve conoscono, e la portano avanti a loro volta.
Beatrice: Credo che ognuno di noi dovrebbe interrogarsi in che modo vive la relazione col potere. Ognuno di noi ha il suo padrone e va individuato, se vogliamo vivere davvero da persone libere.
Matilde: Anche il tema del capitalismo è stato un grande fuoco per Veronica. Le serve non hanno un’identità, sono il loro lavoro, una denigrazione di loro stesse.

Perché questo testo è ancora attuale oggi?
Beatrice: Come ha commentato uno spettatore, un elemento di attualità riguarda le ingiustizie negli ambienti di lavoro, che ancora oggi mancano di umanità. Un altro elemento riguarda la realtà dei social, il desiderio d’esistere agli occhi del mondo attraverso i social. E qui torniamo al discorso sull’idolo, come può essere la Ferragni di turno… Io voglio essere come lei perché solo così potrò essere qualcuno… Diversamente non valgo niente. Tutto ciò porta a perderti, a non sapere più chi sei.
Matilde: È estremamente attuale in una società capitalistica in cui esisti solo se consumi, solo se sei l’immagine di te che mandi all’esterno con i social, o se sei l’immagine che il tuo datore di lavoro ti rimanda.
Beatrice: Claire usa proprio questa parola: immagine. “Non ne posso più di questo specchio agghiacciante che mi rimanda la mia immagine con un cattivo odore”. Dove cerchiamo la nostra immagine? In chi? È tutto un gioco di maschere, di ruoli, di cui a volte diventiamo prigionieri senza neanche accorgecene…
Matilde: Veronica ha aggiunto anche il livello delle attrici, che non è presente nel testo. Noi entriamo in scena da attrici. L’attrice che riveste il ruolo della serva, che riveste il ruolo della padrona… Quanti ruoli viviamo? Di quanti volti ci vestiamo? E una volta tolti quelli, cosa resta? Dove cercare quest’essenza profonda? É un discorso complesso… Noi ci facciamo continuamente domande, e sicuramente anche il pubblico lo fa insieme a noi.

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