Le voci di Servillo per Eduardo

Le voci di dentro
Le voci di dentro
Le voci di dentro (photo: piccoloteatro.org)
«Certi sogni sono talmente belli che sembrano operette di teatro».
“Le voci di dentro”, capolavoro di Eduardo, potrebbe stare già tutto nel nocciolo di questa frase, pronunciata tra le prime nel testo. Non perché i sogni di cui ci parla (e di cui si sostanzia) la vicenda dei fratelli Saporito e della famiglia Cimmaruta siano belli, anzi: proprio da un sogno creduto vero, nasce la denuncia d’omicidio che dà l’abbrivio all’implosione di molte relazioni sociali, a partire da quelle che si sarebbero credute più stabili, cioè le familiari.

Il fatto è che la negatività, in questo Eduardo particolarmente pessimista, non è così diversa dalla positività. Proprio la facilità con cui il sogno può sembrare altro, e con cui la presunta realtà si specchia in falsità, muove drammaturgicamente sia il teatro che la vita.

Ci si lamenta spesso che i Teatri Stabili usino De Filippo come facile sicurezza per il cartellone: un’àncora per evitare più coraggiose aperture al contemporaneo meno consacrato. Sicuramente è così. Ma capita poi che Toni Servillo, regista e protagonista di queste “Voci di dentro”, con già alle spalle altre esperienze eduardiane, faccia un mese di tutto esaurito a Milano e un altro a Roma: di fronte a una così ampia richiesta del pubblico, è evidente che la questione va ulteriormente problematizzata; quando, come in questo caso, la qualità è molto alta, è la tradizione stessa a reclamare uno spazio che sarebbe impossibile non darle.

Lo spettacolo nasce da una coproduzione fra il Teatro di Roma, il Piccolo di Milano e Teatri Uniti di Napoli: quasi per propaggine della sua ironia, l’Eduardo del post-mortem sa congiungere latitudini non sempre inclini a parlarsi; e unisce quest’Italia disunita indagando col teatro quelle ipocrisie sociali che, nonostante lo sfondo partenopeo e dialettale, facilmente assumono una più larga dimensione umana.

Dice Toni Servillo che Eduardo è il più straordinario e forse l’ultimo rappresentante della drammaturgia contemporanea popolare. Magari non l’ultimo (gente come Michele Santeramo sta lavorando davvero bene), ma di certo ineguagliato – insieme a Pirandello – nel difficile connubio fra comicità e profondità demistificatoria.

Come scrisse Cesare Garboli, in “Le voci di dentro” Eduardo è quanto mai vicino al surrealismo: sono le paure, i dubbi, i sogni e le amnesie a creare la realtà, non viceversa. In effetti, oltre a Pirandello, i primi modelli che vengono in mente per un testo di questo genere sono certi autori come Alberto Savinio o Paola Masino, non estranei tra l’altro alla scrittura di scena, e nei cui testi l’erosione tra conscio e inconscio, tra veglia e sogno è il centro stesso dell’esperienza creativa. Un’erosione che non a caso comincia fin dal primo monologo dello spettacolo: nella scena lattiginosa e quasi vuota, occupata soltanto da un tavolo e da una madia al centro del fondale, la domestica della famiglia Cimmaruta racconta con vivido espressionismo un incubo dove la liquidità della pioggia si contrae negli spasmi di un verme e nella vischiosità del sangue.

L’inquietudine del non detto viene alimentata dalla saggia regia di Servillo con minuti e raffinati dettagli scenici, come quando al movimento circolare del braccio della signora Rosa che trita il caffè si affianca quello della domestica che sbatte lo zabaione, in un vortice doppio che anticipa simbolicamente lo sconvolgimento della famiglia Cimmaruta. E c’è poi la presenza dei morti, «che sono ormai più di noi»: si nascondono come tarli nei mobili, e sono loro a rompere il silenzio dei vivi con i cricchi del legno.

Sarebbe inutile mettersi a cantare le lodi di un testo di Eduardo, visto che parliamo di un autore entrato da tempo nel pantheon della drammaturgia italiana. Ma stupisce ogni volta come in De Filippo la sottigliezza comica riesca sempre a suggerire la profondità di crepe psicologiche e sociali: si veda tutta la prima parte (che, coerentemente col tema del doppio e del sogno, si rivelerà un’illusione), in cui Eduardo calca un’efficace caricatura di certi vizi popolari, cioè di come l’invidia dei ricchi e la vittimizzazione di sé stessi sia a volte solo un modo di offuscare la consapevolezza dei propri difetti, del male sociale che penetra più in profondità di quanto si voglia credere (come dimostrerà la vicenda di Carlo Saporito).

Se un sogno illude di realtà Alberto, fino a fargli accusare d’omicidio l’intera famiglia Cimmaruta, è anche l’intero vincolo delle relazioni sociali a rivelarsi effimero e doloroso, in un parossismo di paure che giungono a partorire colpe anche lì dove non ce ne sarebbero state. E allora non sembra più tanto grottesca la soluzione di Zi’ Nicola, uomo-oggetto d’ispirazione pirandelliana (anche se troppo spesso si dimentica l’antecedente di Rosso di San Sepolcro), che sceglie di comunicare soltanto attraverso l’oscuro codice dei fuochi d’artificio.

Tutte le possibili rifrazioni del testo sono valorizzate da Servillo in una messa in scena di elaborata semplicità, in cui i tempi e l’uso dello spazio sono dettati soprattutto dall’entrata e dall’uscita dei personaggi: molto efficace è, ad esempio, la dinamica da confessionale che caratterizza l’ultima parte dello spettacolo, quando i Cimmaruta si presentano uno ad uno davanti ad Alberto, accusandosi a vicenda.
La partitura ritmica è quindi affidata in primis alla straordinaria capacità degli interpreti: nelle tirate così come negli scambi rapidi, è il corpo fonico del napoletano lo strumento armonico su cui gli attori realizzano le variazioni di registro, accentuando o meno l’indistinguibile consonantismo del partenopeo.

E forse proprio dall’abilità con cui usa il dialetto per gli scopi scenici concreti, nasce l’ennesima interpretazione gioiello di Toni Servillo: senza cedere ad alcuna tentazione mattatoriale, e anzi trovando uno spazio di esatta convivenza con Peppe, il fratello reale e fittizio, Servillo dà ormai quell’impressione di positivo rilassamento e di consapevole fiducia nei suoi mezzi che Stanislavskij indicava come qualità distintiva dei grandi attori.

Proprio Peppe Servillo conferma l’evidente qualità del dna di famiglia, passando con imbarazzante facilità ed esiti convincenti dalla musica degli Avion Travel all’ambigua furbizia su cui fonda il personaggio di Carlo Saporito.
Attorno ai fratelli orbita un gruppo d’attori di varietà anagrafica ma costante abilità nel mestiere, fra cui spicca in particolare l’energia di Chiara Baffi nel ruolo della cameriera Maria.

Secondo Servillo, nelle messe in scena di Eduardo «il profondo spazio silenzioso che c’è fra il testo, gli interpreti ed il pubblico va riempito di senso sera per sera sul palcoscenico». E proprio questo silenzio assume forza travolgente nel finale, quando Eduardo e gli attori sospendono i tentativi di riempirlo, e l’incapacità di ascoltare la verità vuota sotto i feticci sociali culmina nel drammatico sonno con cui, come la maggior parte di noi, Carlo la nega.

Le voci di dentro
di: Eduardo De Filippo
regia: Toni Servillo
con: Betti Pedrazzi, Chiara Baffi, Marcello Romolo, Lucia Mandarini, Gigio Morra, Peppe Servillo, Toni Servillo, Antonello Cossia, Vincenzo Nemolato, Marianna Robustelli, Daghi Rondanini, Rocco Giordano, Mariangela Robustelli, Francesco Paglino
scene: Lino Fiorito
costumi: Ortensia De Francesco
luci: Cesare Accetta
suono: Daghi Rondanini
aiuto: regia Costanza Boccardi
coproduzione: Teatro di Roma, Piccolo Teatro di Milano-Teatro d’Europa, Teatri Uniti
durata: 1h 50′
applausi del pubblico: 3′ 40”

Visto a Roma, Teatro Argentina, il 31 maggio 2013


 

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