L’Eco della Ragione: il Nome della Rosa secondo Leo Muscato

Photo: Alfredo Tabocchini
Photo: Alfredo Tabocchini

“Bianco in cielo e scuro in terra, la bestia si aggira nell’abbazia”: mette in guardia con sibillino oracolo il saggio e canuto Alinardo da Grottaferrata. Un mostro sacro si aggira sul palco del Teatro Carignano di Torino: uno dei più idolatrati – e discussi – classici della letteratura del ‘900 viene portato in scena nella sua prima trasposizione teatrale attraverso il lavoro drammaturgico di Stefano Massini (autore, fra i testi più recenti, della colossale “Lehman Trilogy” di Luca Ronconi), e la regia di Leo Muscato.

I due artisti riescono abilmente a destreggiarsi nel maelstrom polisemico dell’opera di Umberto Eco, rendendo onore alla centralità del Verbo, alla celebrazione di quella Parola, orale e scritta, che il semiologo pone come vera protagonista di un romanzo programmaticamente enciclopedico, fondato sull’intertestualità, sulla citazione e su un postmoderno pastiche di generi letterari, che spaziano dal più popolare poliziesco all’erudito romanzo storico sino all’aura soprannaturale del gotico-fantastico.

“Il nome della rosa”, lo ricordiamo, è il cruento romanzo di formazione del giovane novizio Adso da Melk, ambientato nel XIV secolo, all’epoca dei contrastati rapporti tra Papato e Impero durante la cattività avignonese. È lo stesso frate, ormai ottantenne, a ripercorrere i tragici fatti di cui fu testimone (e perplesso interprete) insieme al suo maestro, il francescano Guglielmo da Baskerville: una sequenza di efferati omicidi sconvolge la vita di un’abbazia benedettina dell’Italia settentrionale; dietro l’inarrestabile carneficina, su cui incombe a lungo il sospetto di un’origine demoniaca, si cela in realtà la volontà apocalittica e reazionaria – impersonata non a caso da un monaco cieco – di nascondere al mondo il ritrovamento del secondo libro della Poetica aristotelica, dedicato alla Commedia e dunque al potenziale sovversivo del Riso.

Uno dei problemi più complessi di questa messa in scena, ha affermato Muscato, è stato quello di riuscire a restituire, in modo quanto più realistico ed efficace possibile, la molteplice topografia dell’abbazia, indiscussa primadonna della storia, e le numerose transizioni spaziali e temporali che scandiscono la vicenda. Occorreva fare tabula rasa nella mente dello spettatore di ogni immaginario precostituito dagli illustri predecessori, l’ipotesto di Eco e l’adattamento filmico di Jean-Jacques Annaud del 1986: la scelta è quindi caduta, grazie a una felice intuizione di Fabio Massimo Iaquone e Luca Attilii, sull’uso massivo delle videoproiezioni, e sulla loro capacità antinaturalistica ed onirica di evocare gli ambienti intrecciando e sovrapponendo una liquida texture virtuale alla solida filigrana architettonica che incornicia il palcoscenico.

Insieme alla scenografa Margherita Palli, ha spiegato Muscato, si è concepita dunque l’idea di una scena modellata come una sorta di “scatola magica” metonimica, che rinunciasse a una ricostruzione veristica e giocasse invece su suggestioni minimaliste, attraverso l’ingresso in scena di pochi oggetti essenziali che richiamassero istantaneamente la diversa anima dei luoghi dell’azione: pergamene, codici miniati, copertine di libri per rappresentare lo Scriptorium o la biblioteca; vetrate dipinte e rosoni per calarsi nella sacralità di una cappella; una barocca cascata di teschi per riprodurre l’ossario.

Sotto l’impalpabile e fluida membrana delle videoproiezioni, l’impianto scenico è quindi costituito da uno scheletro goticheggiante, verticalmente arrampicato su un edificio di scale a linea spezzata che paiono intersecarsi, suggerendo quasi l’impressione pittorica della labirintica serie di Carceri di Piranesi.
Questa impalcatura a soppalco, che rivela non a caso una remota ascendenza con le scenografie multiple delle sacre rappresentazioni medievali, crea così delle piccole edicole dislocate a diversi piani di altezza, che conferiscono ai personaggi la possibilità di un conchiuso e claustrofobico dinamismo nella mortifera struttura dell’abbazia.
Magistralmente costruiti sono infine i frequenti effetti di profondità di campo e di stratificazione di piani, prodotti attraverso una serie di squarci nella tela da cui si intravedono, come finestre scavate nel fondale, le celle dei frati, e che magnificamente rendono la pluralità compresente dei luoghi del monastero e quell’atmosfera brumosa e funerea che è stata resa celebre dall’Abbazia nel querceto di Caspar David Friedrich.

Sicuramente indovinate, da parte di Muscato e Massini, sono sia la condensazione e l’ordinata scansione drammaturgica della vicenda in quadri compatti, sia la resa dell’affresco polifonico che popola il microcosmo dell’abbazia, frutto di un accurato lavoro sulla caratterizzazione dei singoli personaggi, ciascuno portatore di una precipua visione del mondo: dalle ansie millenaristiche del misticheggiante eretico Ubertino da Casale – interpretato da un Eugenio Allegri che ricopre contemporaneamente i panni del mefistofelico inquisitore Bernardo Gui – allo spassoso e maccheronico plurilinguismo di Salvatore, buffonesco frate poliglotta sostenuto in scena dal sorprendente Alfonso Postiglione. Degna di menzione è poi la squisita prova di Luca Lazzareschi nei panni di quell'”araldo di curiosità” – candidamente ispirato allo Sherlock Holmes di Conan Doyle e al filosofo inglese Guglielmo di Ockham – che è l’investigatore Guglielmo da Baskerville, incontrastato campione di retorica nei brillanti dialoghi del dramma. È lui che, con metodo abduttivo-congetturale, severo pragmatismo logico e una paziente maieutica socratica, conduce per mano l’ingenuo Adso-Watson lungo una tortuosa indagine, a tratti verbosa nella predominanza del recitativo dialogico.

Muscato porta dunque in stato di limpida emersione quei conflitti della conoscenza – sempre esitante fra istanze illuministe e oscurantiste – che sono il nodo tematico del racconto di Eco, e lo fa sguinzagliando la pacata quanto asettica lucidità raziocinante di un Lazzareschi che pare nato per la parte del detective, impegnato com’è a dissezionare il reale, a decifrare il rizomatico libro del mondo con il bisturi dei propri sillogismi.

Il colpevole, una volta identificato in Jorge da Burgos, scatenerà un enorme incendio, a sigillare per sempre i segreti della biblioteca, e suggella così anche l’epilogo di quello che Eco ha definito un “giallo filosofico-metafisico”: Muscato fa divampare sulla scena una colata cremisi di fiamme digitali, visivamente imponente, che depositano sul palco le ceneri del dubbio e la sconfitta di una razionalità claudicante, sempre un passo indietro rispetto alla verità che la precede, e sempre minacciata dal vizio dell’errore prospettico e della proliferazione sotteranea del caos.
«Non ho mai dubitato della verità dei segni, Adso, sono la sola cosa di cui l’uomo dispone per orientarsi nel mondo. Ciò che non ho capito è stata la relazione che c’era tra quei segni. […] Inseguivo una parvenza di ordine, quando dovevo sapere che non v’è nessun ordine nell’universo. Dove sta tutta la mia saggezza?».

Nel complesso, l’aspetto più inedito ed interessante dello spettacolo appare la resa dello sdoppiamento del personaggio di Adso, già rimarcato come problema da Eco nelle sue celebri Postille: “Adso racconta a ottant’anni quello che ha visto a diciotto. Chi parla, l’Adso diciottenne o l’Adso ottantenne? Tutti e due, è ovvio, ed è voluto. Il gioco stava nel mettere in scena di continuo Adso vecchio che ragiona su ciò che ricorda di aver visto e sentito come Adso giovane”.
Muscato restituisce egregiamente questa duplicità attraverso la scelta di una compresenza sul proscenio della suadente voce narrante di Luigi Diberti – quasi figura kantoriana della memoria, dalla cui affabulazione si crea demiurgicamente la scena – e del giovane Adso che materializza, agendo, i ricordi dell’anziano monaco.

L’adozione delle videproiezioni, funzionali all’evocazione stilizzata degli ambienti, è però troppo prudente nell’osare con l’astrazione. Quello raggiunto da Muscato è infatti un effetto di perfetta coincidenza, di sovrapposizione – e non, quindi, di fertile complementarità o dissonanza – fra parola e immagine, che finisce forse per peccare di didascalismo e ridondanza, non puntando sullo stridore del contrappunto, sulla possibile indipendenza e divergenza straniante dei due linguaggi, sulle fertili zone di indeterminatezza.

Quella di Muscato è senza dubbio un’operazione filologicamente impeccabile, che forse però fatica a liberarsi dall’ossequio alla fabula, risultando infine appiattita sul ritmo serrato del racconto romanzesco, e rinunciando così a regalarci una nuova angolazione da cui guardare l’opera.
Occorre d’altronde riconoscere il vincolo imposto dalla ferrea concatenazione di eventi dell’intreccio che, come preciso meccanismo orientato alla soluzione, non può tollerare omissioni, lacune né eccessive riduzioni.
È dunque, forse, il determinismo della trama a impedire una piena e dispiegata libertà creativa, imponendo una fedeltà al testo che preclude quello scarto espressivo che, invece, potrebbe arricchire ogni traduzione intersemiotica del valore aggiunto dell’interpretazione nel passaggio da un codice linguistico all’altro, senza necessariamente contraddire o tradire la fonte originaria.

Del resto è proprio Muscato a sostenere: “Tutto è nel testo. Il nostro mestiere è quello di spremere il testo”. E difatti ciò che si ottiene è un distillato del grande testo di Eco, delle sue massime più iconiche, una sorta di graphic novel d’autore rivolto a un pubblico di cultori del romanzo.

IL NOME DELLA ROSA
di Umberto Eco
versione teatrale di Stefano Massini (© 2015)
regia e adattamento Leo Muscato
con: Luca Lazzareschi (nel ruolo di Guglielmo da Baskerville), Luigi Diberti (il vecchio Adso), Renato Carpentieri (Jorge da Burgos), Eugenio Allegri (Ubertino da Casale, francescano e Bernardo Gui, inquisitore), Giovanni Anzaldo (il giovane Adso). Con loro in scena: Giulio Baraldi (Severino da Sant’ Emmerano, l’erborista), Marco Gobetti (Malachia da Hildesheim, il bibliotecario e Alinardo da Grottaferrata, monaco centenario), Daniele Marmi (Bencio, copista), Mauro Parrinello (Berengario da Arundel, l’aiuto-bibliotecario), Alfonso Postiglione (Salvatore), Arianna Primavera (una ragazza), Franco Ravera (Remigio da Varagine, cellario), Marco Zannoni (abate)
scene Margherita Palli
costumi Silvia Aymonino
luci Alessandro Verazzi
musiche Daniele D’Angelo
video Fabio Massimo Iaquone, Luca Attilii
assistente regia Alessandra De Angelis
assistente scenografa Francesca Greco
assistente costumi Virginia Gentili
assistente volontaria scene Katarina Stancic
produzione: Teatro Stabile di Torino – Teatro Nazionale, Teatro Stabile di Genova, Teatro Stabile del Veneto – Teatro Nazionale

durata: 2h 20′
applausi del pubblico: 5′

Visto a Torino, Teatro Carignano, il 31 maggio 2017
Prima Nazionale

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