Lenz Rifrazioni: trent’anni di teatro sensibile – 2^ parte

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Dido -Lenz Rifrazioni
Dido – Lenz Rifrazioni (photo: Francesco Pititto)
Riprendiamo oggi la nostra lunga chiacchierata con Maria Federica Maestri, direttrice artistica insieme a Francesco Pititto della compagnia Lenz Rifrazioni di Parma. Ventisette anni di storia alle spalle che abbiamo iniziato a ripercorrere nella prima parte della nostra intervista.

Ritorniamo agli inizi. Quali sono state le tappe della vostra evoluzione? Avete fin dall’inizio pensato e perseguito una direzione precisa o avete progressivamente incontrato dei punti di svolta?

Ti costruisci con grande forza all’inizio; per darti una dimensione e un’identità devi pensare di sapere esattamente quello che vuoi fare e quello che sarai. Quando siamo nati, nella metà degli anni Ottanta, era il periodo del teatro dell’immagine, dell’effimero, del distanziarsi dalla funzione etico-sociale del teatro, creatività per la creatività, forse era anche il liberarsi di un fardello che erano stati gli anni Settanta.
Noi siamo nati in antitesi con questo desiderio di astensione dalla funzione intellettuale, politica, morale del teatro; eravamo contro il patetismo, l’intimismo, molto diffusi in quel periodo, un universo di emotività diffusa ma molto finta e spesso molto retorica.
Ci siamo battezzati col nome del nostro primo lavoro, negando un’identità personale: siamo ciò che facciamo. Ci siamo messi insieme per pulsioni e per condivisioni, ma avevamo già dall’inizio un progetto triennale, il “Lenz” di Buchner.
Alcuni critici avevano definito il nostro lavoro come neo romanticismo, Giuseppe Bertolucci per esempio, allora molto vicino ai gruppi teatrali emergenti.
All’inizio c’è stato come un percorso tracciato in maniera molto più chiara, oggi mi sento molto più sensibile alle deviazioni umorali. Lavorare sulle drammaturgie tentando la formazione di un ensemble stabile, questi sono stati per noi gli inizi.

Un percorso che rifareste uguale anche oggi?
Oggi una cosa del genere non è più possibile, il tempo è troppo determinato e non permette neanche più l’idea di una cosa simile. Per anni abbiamo perseguito quella strada, abbiamo lavorato con Bruno Stori, un attore importante che ha fondato con noi il Lenz, abbiamo tentato modalità di lavoro in cui veramente l’attore era consapevole, anche della parte di scrittura intellettuale: percorsi che oggi sono assolutamente irripetibili, non ci sono più le condizioni concrete, non hai più neanche la previsione che ci siano. Costruisci dei percorsi lunghi, come quelli ad esempio con Valentina Barberini e Giuseppe Barigazzi: sono sei anni che lavoriamo insieme, ma lavoriamo per così dire di volta in volta. Quello che ci è stato tolto è la possibilità di avere una prospettiva di un lavoro serio, ancora prima che stabile, di esistenza nell’arte, queste sono cose che non esistono più. Ci è stata tolta la possibilità di avere una non-accademia ma con gli stessi strumenti dell’accademia.
Non ci sono più le condizioni per cui l’attore, l’artista, possa scegliere di stare con te in un tempo e di viverlo, abitarlo veramente, essere nelle condizioni oggettive per farlo. Quindi inventi forme diverse di coesistenza artistica, vai a creare una relazione con chi non ha il dovere del lavoro, con risultati spesso straordinari, perché possono dedicarsi alla loro vita artistica con pienezza. L’incontro con la differenza è anche un incontro socialmente necessario in qualche modo, ci si rimette alla ricerca dell’estremo indispensabile, della condizione già pienamente matura.
Aeneis #4 -Lenz Rifrazioni
Aeneis #4 – Lenz Rifrazioni (photo: Francesco Pititto)
Parliamo allora dei vostri “attori sensibili”. Dietro c’è un lavoro per certi versi pionieristico, quello cioè di riuscire a conciliare la vostra poetica di teatro di ricerca e sperimentazione, quindi un approccio piuttosto complesso e impegnativo con la messa in scena, con la condizione di “diversità” psicofisica di queste persone.
La nostra non è mai stata un’esperienza occasionale, i primi lavori risalgono al ’97-’98; è un rapporto molto lungo e maturato. È stato apparentemente un incontro tra sconosciuti; in realtà più la tua identità è estrema e anticonvenzionale, più la tua poetica tende a togliere la crosta della realtà e più si fidanza con questo genere di interprete. È un’esperienza nata da un incontro casuale durante la visita a un laboratorio teatrale di disabili intellettivi, condotto da Lucia Perego, una danzatrice nostra cara amica, e lì è stata la scoperta di un mondo, di un universo, una folgorazione nell’individuare un potenziale superiore in questi attori per la qualità della gestualità, dello sguardo. Come un sortilegio insomma.
Dopo è stato un processo lunghissimo, con una ricerca ossessiva. In questi anni sono stati circa 250 gli attori sensibili con cui abbiamo lavorato. Siamo andati a fondo nella dinamica più nascosta del corpo, è stato un lungo processo di apprendimento per noi, che è tuttora in corso. Ora abbiamo proposto un progetto dove alcuni attori disabili intellettivi costruiranno un film, diretto da Francesco Pititto: oltre a essere interpreti e autori saranno immessi nella dimensione digitale, come se il nostro percorso non fosse mai separato, ma si approfondisse attraverso l’opera pedagogica che lui farà con questo gruppo.
Ho visto dei lavori fotografici meravigliosi realizzati da persone down; e per alcune disabilità come l’autismo la cifra della mediazione meccanica è fondamentale per attingere a un atto artistico per noi irraggiungibile.
Il progetto quindi si trasforma. Dopo 25 anni è scaturito il bisogno di aumentare la qualità dell’espressione artistica, senza chiudersi nel proprio micro universo stilistico ma lasciando sempre le porte aperte. Questo percorso nella sensibilità negli anni non è rimasto uguale a se stesso, sono onde con ritmiche molto diverse nel corso del tempo.
Dido -Lenz Rifrazioni
Dido – Lenz Rifrazioni (photo: Francesco Pititto)
L’imagoturgia. Termine da voi coniato per definire la vostra poetica della drammaturgia-immagine.
La definizione è appunto di Francesco Pititto, che ha iniziato la sua carriera come regista cinematografico, e questa impronta chiarisce molto bene il suo modo di comporre immagini per la scena. Non è mai un’immagine creata per costruire un ambiente, come per la musica, non è mai pensata né come sfondo né come esplicativa; la modalità è parallela. Lavoriamo a definire dei nodi concettuali, definiamo il punto di tensione. In “Dido”, per esempio, era l’assoluta esposizione somatica, l’epidermide, la totale evidenza dell’esteriorità del corpo, il luogo del contatto evidente, esposto alle pulsioni.
Il lavoro si sviluppa definendo una cosa fondamentale come il set dell’immagine, che cosa cioè si deve vedere nell’immagine, che spesso non ha niente a che fare con la scena; attraverso questa idea si crea un immagine che entra nello spazio scenico in un luogo preciso: la localizzazione dell’immagine.
Si entra in relazione non solo con la drammaturgia ma con il luogo stesso della messa in scena; in “Dido” era il pavimento e le immagini erano un mosaico moltiplicato perché non ci doveva essere nessun luogo artificiale come uno schermo, era come una pelle.
La creazione dell’imagoturgia avviene per gradi: definizione di un nodo concettuale, costruzione dell’ambiente, e restituzione dell’immagine in un punto preciso dello spazio, la non casualità. Sono piani in sovrapposizione. La potenza dell’immagine viene relazionata con la potenza della fisica scenica, dell’essere vitale. Vivificazione che il corpo scenico produce in relazione all’immagine.
Una volta presupposto il materiale avviene il montaggio, si innestano le sequenze all’interno del lavoro. Per “Dido” abbiamo girato nelle rovine di Cartagine per esempio, un montaggio in base alla scrittura, un riadeguamento del materiale filmico montato nelle sequenze dello spettacolo. Io e Francesco, come con i musicisti, siamo molto autonomi nel nostro lavoro, ma nell’unità c’è comunque una polifonia diversa.

Per voi la scena sembra essere una specie di involucro, estremamente denso, dove sono presenti contemporaneamente la dimensione performativa, installativa, visiva e musicale. È come un corpo energetico che si sviluppa attraverso un contagio collettivo di più forme artistiche.

Istintivamente, senza particolari ragionamenti a tavolino, si è creata una volontà di decostruzione di un tema. Questa capacità di decostruzione sconfina in altri linguaggi, o meglio, viene restituita anche dagli altri linguaggi. È come operare delle incisioni sul testo attraverso il corpo dell’attore, sentiamo che si incide profondamente se, insieme alla presenza dell’attore e dell’installazione, riusciamo a restituire il mondo, che poi è il mondo reale sotto certi aspetti, pieno di sovrastimoli, di sollecitazioni, di non senso che accompagna la ricerca del senso.
Su questo continuiamo a costruire una fiaba, non solo corporea, ma una fiaba contemporanea, che vuol dire urbanizzare la scena attraverso le polverizzazioni sceniche, come il suono per esempio, e il tutto si stratifica su un unico corpo.
Nella presentazione dei sei capitoli dell’“Eneide” ci ha piacevolmente stupito la reazione del pubblico come quarto respiro. Per noi dentro alla decostruzione inizia la costruzione.
Exilium -Lenz Rifrazioni
Exilium – Lenz Rifrazioni (photo: Francesco Pititto)
Natura Dèi Teatri, il vostro festival di creazioni performative (anche questo un progetto pluriennale che indaga i nuovi linguaggi della creazione dal respiro internazionale) è interessante perché non si propone come semplice vetrina, ma ad ogni edizione viene dato un tema su cui vari artisti sono chiamati a cimentarsi.
Il festival è nato nel ’96 e scaturisce dal bisogno di avere un dialogo vero con il lavoro di altri artisti. Molto spesso si è molto concentrati sul proprio universo e si perde o si ha paura del contatto con la ricerca altrui. Per noi è fondamentale questo dialogo perché trovi delle coincidenze inaspettate in mondi magari molto lontani dai tuoi, e poi perché c’è una dimensione intellettuale a cui molto spesso gli artisti rinunciano, che è la creazione di un progetto culturale. Molto spesso questi progetti vengono delegati ad altri soggetti che non sono gli artisti stessi, questo per noi è una cosa che indebolisce la funzione dell’artista. L’artista ha anche una funzione intellettuale, che è quella di dare delle definizioni del mondo, non solo attraverso il suo lavoro ma anche attraverso un’azione critica.
Il festival è nato da questa volontà. All’inizio animava, attraverso esperienze performative e laboratoriali, luoghi sconosciuti come boschi, posti inabitati; poi si è trasformato in progetto urbano, anche in ragione di condizioni esterne che sono cambiate, svolgendosi quasi esclusivamente negli spazi di Lenz, ma ha accentuato la dimensione di creazione realizzata appositamente per il festival. Abbiamo cercato nei limiti di un badget esiguo di dare dei nodi tematici, creando progetti triennali. I prossimi tre anni saranno dedicati alle suggestioni filosofiche di Gilles Deleuze: Ovulo, nell’edizione di quest’anno dall’1 al 9 dicembre, e poi Glorioso e I Due Piani, per i prossimi due anni.
È sempre stato il contrario di una vetrina o di una promozione di spettacoli, è innanzitutto luogo di incontro. E tutti gli ospiti hanno arricchito moltissimo il nostro linguaggio. Da due anni la parte musicale è molto forte, compensando la parte corporea del progetto. È sempre più difficile individuare lavori teatrali in sintonia con lo spirito del festival, gli spazi di ricerca sono sempre più ridotti. È  quindi diventato un momento di produzione e ospitalità di realtà interessanti anche dal punto di vista etico.

In questa tendenza alla proiezione in avanti, concludiamo con il più classico dei finali. Quali altri progetti futuri?
A parte il lavoro sul film, che sarà biennale, arriveremo alla lingua: l’Adelchi e i Promessi Sposi, progetti triennali dedicati a Manzoni; ci concentreremo quindi sulla grande fiaba che fonda la nostra lingua. Sono come corpi da abbracciare e da cui farsi possedere più che da possedere, soprattutto per la loro irrapresentabilità scenica.

Una nuova sfida per i trent’anni di Lenz Rifrazioni.
 

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