“Les Trois sœurs” di Simon Stone: una pagina di storia del teatro

Photo: Thierry Depagne
Photo: Thierry Depagne

“Quel convento era il mio rifugio, un luogo di sole e di morte […]. Ma la felicità, pensavo in principio, non c’è la felicità? Deve esserci. Oh, la felicità, ma è naturale, la felicità, come no”.
(da “Wide Sargasso Sea”, Jean Rhys, trad. it. di Adriana Motti, Adelphi, Milano 1971, p. 53)

C’è un punto, ne “Il grande mare dei Sargassi” di Jean Rhys, un punto che va all’incirca dalla prima all’ultima pagina, in cui si percepisce la vita venir meno sotto i piedi. È il “tempo di Bertha” che, letteralmente, brucia. Come se un enorme aspirapolvere risucchiasse tutto l’ossigeno presente nella sua casa romita e, con esso, qualsiasi lacerto-incerto di felicità.
Già, la felicità. Soffocata del tutto. Un attimo soltanto e poi – bum! – non c’è più.

Proprio con tale suggestione mi avvicino alle “Tre sorelle” in lingua d’oïl. Un teatro o meglio un modo bello (senza inutili elativi e -issimi) di essere contemporanei.
“Les Trois sœurs” di Simon Stone – troppo rapidamente en scène sul palco del Teatro Carignano di Torino a gennaio – sono come noi (anche se drammaticamente divise da noi): vanno a Berlino, bevono Coca-cola, si fanno una canna, vestono spolverini e bluse.

Tutto accade in una reboante tenuta per le vacanze: un cottage vetrato a due piani, scaraventato sul palco a mo’ di ufo. Tutto intorno l’inquietante iperuranio teatrale, il nero delle quinte e dello sfondato. Ad abitare e a profanare questo ‘residence’ post-moderno, un ensamble di inquietanti e quanto mai ordinari figuri: Théodore è un marito e insegnante così perfetto da attirare continuamente su di sé le offese della consorte stizzita; quest’ultima – Macha – è una giovane donna passionale e tormentata, che Céline Sallette (la Julie di “Les Revenants”) interpreta in un perfetto “stato di (dis)grazia”. A lei si unisce il fedifrago Alexandre, un Mr. Rochester dei giorni nostri, con moglie pazza e due bimbe a carico. C’è poi il tossico André, che dopo una vita da Tersite, finalmente, a un passo dal tragic ending, mostra un po’ di spina dorsale rincorrendo a suon di «Chienne!» l’odiosa Natacha, la moglie esausta che l’ha lasciato e che ora è riuscita a rifarsi una vita (una vita dannatamente lussosa, à la “diamonds are a girl’s best friends”).

Le altre sorelle sono Irina, una ragazza così fintamente intraprendente da risultare vuota, sciapida e appassita (in scena infatti cogliamo la sua progressiva metamorfosi, o per meglio dire abbruttimento), e Olga, la maggiore (una eccellente Amira Casar, attualmente sul grande schermo con “Chiamami col tuo nome” di Luca Guadagnino, che non fa rimpiangere neppure per un attimo Valeria Bruni Tedeschi, che qualche mese fa ha dato forfait), una donna di carattere, forse l’unica realmente legata a quel maniero, che partecipa alle vicende come una specie di perpetua (ma che alla fine si scoprirà, a sorpresa, legata a un’altra donna, conosciuta tramite il giro di amicizie omosessuali del sodale Herbert).

Gravitano attorno alla “casa del nespolo” (un’abitazione palchettata provvista di bagno, camere da letto, salotto con pianoforte e soggiorno) anche il vecchio Roman, inguaribilmente innamorato della madre defunta delle sorelle, e Victor, un giovane tra l’atipico e lo psicopatico che nutre sentimenti ambivalenti per Irina, la quale ha un continuo tira-e-molla con Nicolas. Quest’ultimo, magistralmente interpretato da Laurent Papot, sembra emanare l’unica flebile fiammella di solarità, seppur destinato ad un tragico epilogo.

Simon Stone compone la scena, elaborata da Lizzie Clachan, come una sequela di fotogrammi: il taglio e il pathos cinematografici che ne discendono agiscono fatalmente sullo sguardo dello spettatore. È pura opsis, sostenuta dalle diavolerie della scenotecnica, eppure priva di strabordanti eccessi.
L’energia che emana da queste “Sorelle” è tanto indicibile quanto razionalmente immotivata, vista l’enorme cesura che si crea fra scena e sala. L’opera sa comunque fare del pregevole metateatro (nel senso di scavo dentro di sé) senza bisogno di occhiolini e interpreti che saltellino in platea. Impacchettati in uno scatolone i triti manierismi del caso, il regista ci mostra “una vita altrove” (per giocare sul titolo dell’amato romanzo di Milan Kundera).

“Les Trois sœurs” coprodotte dall’Odéon parigino e TST sono un’opera encomiabile in quanto autentico saggio di teatralità per l’oggi, per il nostro – neppur più tanto nuovo – millennio.
Esulando dalla valutazione dei singoli artisti, tutti troppo intensi per poter subire una banale critica, veniamo alla natura dinamica di questo spettacolo. In uno stesso istante, nella casa, si realizzano e attuano molteplici setting: in un certo senso, nulla può accadere in isolamento perché tutto co-accade. Le azioni, simultanee, si spiegano nel loro contesto, mai al di là di esso. È come osservare un Escher. E ciò è tanto più emozionante quanto più risulta essere in grado di rispecchiarci: perché noi, “ragazzi di oggi” che andiamo pazzi per i reality show e non distraiamo lo sguardo dallo smartphone neppure per guidare, noi che facciamo così tante cose insieme, a quella legge tradizionale dell’“uno per volta” non crediamo più! E solo Simon Stone, ad oggi, mi sembra essere riuscito (complici ovviamente le ingenti spese tecniche e scenografiche) a superarla davvero, quella norma scenica. In un modo credibile, s’intende.

«Čhecov – secondo Stone – ha elaborato una struttura perfetta, una drammaturgia brillante, lasciando ai personaggi la libertà di manifestarsi nel modo più autentico possibile. Inoltre ha dimostrato come sia magnifico e assurdo osservare delle persone in scena intente a discutere di questioni quotidiane. È questo che rende la sua opera estremamente rivoluzionaria. […] La nostra stessa produzione deve puntare alla stessa radicalità. Anche il pubblico si farà, almeno spero, lo stesso tipo di domande: in che senso possiamo parlare di arte? È di questo che si tratta: mostrare delle persone, in una stanza, che parlano di questioni molto profonde, mentre nella stanza accanto si scambiano delle banalità».

Nel computo degli insegnamenti impartiti da questa messinscena annoveriamo anche una bella lezione di linguaggio. Innanzitutto, artefice della traduzione è Robin Ormond: il russo dell’originale checoviano pare condividere con le sonorità francesi di questa riscrittura una medesima dolcezza palatale. A proposito della generale azione di rimodernamento del testo, la parola va al regista e alle dichiarazioni da lui rilasciate nel novembre 2016 a Constanze Kargl per il programma di sala del Theater Basel (in occasione della rappresentazione originale in tedesco): «Tutte le sue opere si svolgono nel tempo presente: il presente non finisce mai. Se fosse vivo, sicuramente Čechov vorrebbe che i suoi drammi fossero ambientati nel presente […]. Ha fatto un lavoro da antropologo e da sociologo, confrontandosi con l’umanità in tutta la sua nudità, fisica, ma anche metaforica. Da medico vedeva le debolezze della gente, conosceva le loro malattie veneree, sapeva tutto delle loro vite private. Un medico deve essere un mediatore senza pregiudizi morali. Intendiamoci, i suoi personaggi hanno un senso morale profondamente radicato – vogliono essere “buoni”. Tuttavia il nucleo centrale delle opere è privo di qualsiasi senso morale convenzionale, per restituire la vita così com’è».

«Io oggi vorrei provocare lo stesso choc nel pubblico, mentre osserva un gruppo di personaggi del tutto normali, con i loro difetti, che litigano come avviene nella vita e si attaccano a tutti i contatti umani immaginabili, semplicemente per sopravvivere – continua Stone – Far sì che gli spettatori si riconoscano: ecco l’essenza della filosofia di Čechov. Lo scopo è quello di far dire: “E’ incredibile che si possa fare arte con questo!” […]. Le spettatrici e gli spettatori tuttavia proveranno un certo brivido pensando che la loro vita personale potrebbe essere abbastanza interessante da farne dell’arte. Da quando esiste l’arte, si pensa che sia dominio del passato: immaginiamo sempre che la nostra vita sia interessante solo per noi e ci vergogniamo troppo di prenderla sul serio. Oggi, l’idea che si fa largo è che avevamo torto».

Che sia dunque questa l’inquietante domanda che si profila dinanzi a noi alle pendici della contemporaneità? Il teatro che diventa la nostra stessa biografia. E quindi, il teatro vive di “vita vera”?

LES TROIS SŒURS
uno spettacolo di Simon Stone
da Anton Čechov
con Jean-Baptiste Anoumon, Assaad Bouab, Éric Caravaca, Amira Casar, Servane Ducorps, Eloïse Mignon, Laurent Papot, Frédéric Pierrot, Céline Sallette, Assane Timbo, Thibault Vinçon
regia Simon Stone
scene Lizzie Clachan
costumi Mel Page
musiche Stefan Gregory
luci Cornelius Hunziker
una produzione Odéon – Théâtre de l’Europe e Teatro Stabile di Torino – Teatro Nazionale

durata: 2 h 15′ (con intervallo)

Visto a Torino, Teatro Carignano, il 24 gennaio

0 replies on ““Les Trois sœurs” di Simon Stone: una pagina di storia del teatro”
Leave a comment

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *