“La morte a Venezia” nello sguardo di Liv Ferracchiati

Morte a Venezia (ph: Tommaso Le Pera)
Morte a Venezia (ph: Tommaso Le Pera)

L’opera di Thomas Mann in un dialogo (con Alice Raffaelli) sul guardare, guardarsi e l’essere guardati

Liv Ferracchiati parte da Thomas Mann per progressivamente discostarsene e rielaborare una propria visione in soggettiva de “La morte a Venezia” (novella del 1912), scompaginandone la componente più spiccatamente sensuale, che è alla base del sinuoso rapporto di voluttà implicita e subliminale che lega i due protagonisti del racconto (l’attempato Gustav von Aschenbach e l’efebico Tadzio), per reinterpretarlo in una chiave sostanzialmente cerebrale, ruotante intorno al concetto dello sguardo: guardare, guardarsi, essere guardati, essere soggetto o oggetto, oppure ancora spettatore esterno.
Guardare, guardarsi, essere guardati è anche la sublimazione d’una incapacità di parlarsi, di esplorare le possibilità della parola, che pur esplicitata resta confinata nel limbo dell’ineffabile, come ancillare al linguaggio dell’immagine.

L’operazione condotta da Ferracchiati parte da solide basi concettuali che già permeavano lo scritto manniano: e se, come recita il sottotitolo dello spettacolo, si tratta di una “libera interpretazione di un dialogo tra sguardi”, scorrendo il testo d’origine non si può fare a meno di notare il ricorrere di riferimenti costanti al senso visivo, primieramente perché si tratta di una narrazione prettamente incentrata su una relazione demandata a quel decadente gusto dell’implicito che finisce per delegare al senso proiettivo della vista quell’inespresso desiderio compresso in contegnosa pudicizia; frammenti sparsi dello scritto originario rimarcano questa poesia dello sguardo: “Nulla esiste di più singolare, di più scabroso, che il rapporto fra persone che si conoscano solo attraverso lo sguardo”; e ancora: “Sembrava al randagio di bere con l’occhio quella magnificenza”; o anche, quando Aschenbach “in mezzo a tanta dissipata dissipazione, ardì gettare uno sguardo verso Tadzio e vide il bello ricambiargli lo sguardo con pari serietà”, e infine verso la conclusione del racconto, quando Tadzio “attardandosi, ogni tanto si guardava indietro, si accertava di sfuggita con un volger d’occhi – dei suoi occhi dall’inconfondibile grigio antelucano – che il suo amante continuasse a seguirlo”, per finire con l’epilogo sancito dall’ultimo gioco di sguardi, che avviene in riva al mare mentre una macchina fotografica poggiata su di un treppiede giace all’ombra del proprio panno svolazzante.

Lo sguardo, dunque: protagonista di un racconto scenico che parte da un testo (meglio: dal suo immaginario intriso di desiderio e morte) per imboccare poi una strada propria, fatta di mescola sapiente dei linguaggi della scena e della tecnica, prendendo sintagmi narrativi per riconvertirli ad uso e consumo di un proprio coerente discorso.
C’è il teatro, c’è la danza, ci sono le riprese video, un occhio molteplice come molteplici sono le prospettive da cui viene posto, che riprende la scena, ma anche la platea, e che arriva al parossismo di mostrarci la stessa scena vista da più angolazioni.

L’allestimento scenico è scarno, minimale: tre grandi pannelli bianchi e celesti a fondo palco a farsi evocativa sineddoche del Lido; non le tende color ruggine descritte da Mann, ma un esplicito richiamo al costume bianco e azzurro indossato sempre da Tadzio nel racconto. Da un lato un cesto di fragole, quelle fragole che sono il presunto untore del colera che colpirà Aschenbach e che qui diventano sulla scena innesco drammaturgico, con l’occhio della telecamera che indugia sul cesto dei lamponi, mentre una voce narrante invita noi spettatori ad assaggiarne: è l’abbrivio del gioco visuale, che ci convoca dentro, che ci fa sentire “guardanti” ma anche guardati, allorquando, nello schermo sul fondale, ci capita di vederci, mentre dalla stessa platea nella quale siamo accomodati, un corpo di donna (quello di Alice Raffaelli) s’alza per raggiungere l’altro (quello di Liv) in palcoscenico e iniziare a coniugare il linguaggio del corpo danzante a quelli della parola detta e dell’immagine proiettata, aggiungendo il senso fluido della corporeità alla presenza scenica del regista che è lì, telecamera alla mano, a riprenderla.

Ne scaturisce un gioco di parole e azioni ugualmente danzanti, le quali costruiscono una partitura coreografica e vocale che si libra sul piano dell’evocazione, sinuosamente barcamenandosi tra il guardare e l’essere guardati, tra il turbamento e il desiderio. Sono Aschenbach e Tadzio? Sono Liv e Alice? O sono forse due corpi (e due anime) messe al servizio di un’idea struggente, di un desiderio inappagato di esistere agli occhi dell’altro? Corpi che non si toccano, sguardi che si moltiplicano, parole che si rincorrono, come alla ricerca di un senso più profondo e comunque fuggevole.
Assistiamo all’evoluire di due essenze, prestate al gioco voyeuristico duplice (se non triplice) che ci vede coinvolti come terzo occhio, curioso di questa poetica incomunicabilità che a tratti ci fa pensare più ad Antonioni che a Visconti.

Ed è una poetica, quella trasposta in assito da Ferracchiati, che bilanciatamente assembla classico e contemporaneo costruendo un suo variegato discorso capace di spaziare dalla poesia di Josif Brodskij in esergo (“In questa città si può versare una lacrima in diverse occasioni”, divagando verso il pop citando Mina (“Mi sei scoppiato dentro al cuore”), per poi tornare a Brodskij nella chiusa finale che evoca lo spegnersi della torbida pupilla e, con essa, degli sguardi colmi di un desiderio non appagato.

Funziona il gioco inscenato, benché velato d’una patina d’algida levigatura che sembra avere il colore e il calore della neoclassica bellezza che Mann aveva impresso nei tratti del suo Tadzio; ma è tratto esteriore che non va a detrimento di quel senso profondo di lirismo che traspare nell’intenzione e nell’idea di questo spettacolo, che pare potersi fare anche volano di una disquisizione più ampia sul senso stesso dell’arte, oggetto di sguardo per antonomasia.

Corpo, sguardo e parola arrivano a sintesi, coadiuvati da un disegno luci essenziale ma efficace nel sottolineare i passaggi emotivi di questo collage di sensazioni evocate e offerte in visione, così come il contrappunto sonoro che segue i ritmi del lirismo della creazione; ed è come se il tutto accompagnasse lo spettatore e il suo sguardo a rivolgersi a un solo tempo verso la scena e verso sé stessi, sovrapponendo il guardare e il guardarsi. Fino a che lo sguardo viene inghiottito dal buio per poi riaccendersi e stemperarsi nell’applauso.

LA MORTE A VENEZIA
libera interpretazione di un dialogo tra sguardi
ispirato a La morte a Venezia di Thomas Mann
drammaturgia e regia di Liv Ferracchiati
con Liv Ferracchiati e Alice Raffaelli
movimento Alice Raffaelli
dramaturg Michele De Vita Conti
aiuto regia Anna Zanetti / Piera Mungiguerra
assistente alla drammaturgia Eliana Rotella
scene Giuseppe Stellato
costumi Lucia Menegazzo
luci Emiliano Austeri
suono spallarossa
voce di Tadzio Weronika Młódzik
consulenza letteraria Marco Catellari
foto di scena Tommaso La Pera
produzione Spoleto Festival dei Due Mondi/ MARCHE TEATRO
TSU Teatro Stabile dell’Umbria / Fondazione Teatro di Napoli – Teatro Bellini
in collaborazione con Fondazione Piccolo Teatro di Milano -Teatro d’Europa

Durata 1h 10’
Applausi del pubblico 1’ 30’’

Visto a Napoli, Teatro Piccolo Bellini, il 26 novembre 2024

0 replies on ““La morte a Venezia” nello sguardo di Liv Ferracchiati”
Leave a comment

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *