“L’Orontea” di Robert Carsen e Giovanni Antonini rivive fra arte e musica

Ph: Vito Lorusso
Ph: Vito Lorusso

Conquista, alla Scala di Milano, la nuova produzione dell’opera seicentesca di Antonio Cesti

Il nostro estremo interesse per l’opera barocca non si poteva lasciar sfuggire l’occasione per assistere al Teatro alla Scala a “L’Orontea”, titolo ai più sconosciuto, ma in realtà una delle opere più celebri del XVII secolo.
“L’Orontea”, composta da un prologo e tre atti, venne musicata dal compositore aretino Antonio Cesti (famoso anche per “La Dori” e “Il Pomo d’oro”) su libretto di Giacinto Andrea Cicognini e Giovanni Filippo Apolloni.
La prima rappresentazione ebbe luogo a Innsbruck il 19 febbraio 1656. Cesti era nella città austriaca al servizio dell’arciduca Ferdinando Carlo come maestro di cappella da camera e, tanto era celebre, in qualità di direttore di un teatro d’opera creato appositamente per lui.
L’opera ebbe molto successo tanto che fu ripresa circa 17 volte prima del 1700.
La sua partitura subì però diverse e incredibili vicende, andando per la sua maggior parte perduta, finché negli anni Cinquanta del secolo scorso furono riscoperti i manoscritti originali. La prima rappresentazione moderna avvenne quindi nel 1961 alla Piccola Scala di Milano con Teresa Berganza, diretta da Bruno Bartoletti.

L’opera si configura come una perfetta commedia degli equivoci, che si intrecciano continuamente con altrettanti mutamenti di affetti.
Protagonista è la regina egiziana Orontea che, contravvenendo ai propositi del suo precettore Creonte, rifiuta un coacervo di nobili amanti, preferendo su tutti, non un nobile come sarebbe d’uopo, ma Alidoro, un vagabondo, straccione nonché pittore, da poco arrivato ferito alla sua corte.
La trama si complica anche dal fatto che di Alidoro, nel corso della storia, si infatua Silandra, una damigella di Corte, che si allontana dalle braccia del cavaliere Corindo.
Intanto un altro personaggio, Giacinta, che si presenta in abiti maschili come Ismero, confessa alla regina di essere stata lei a ferire Alidoro, ricevendone grande sdegno. La regina, in preda all’angoscia, confessa il suo amore ad Alidoro che, svenuto, non l’ascolta. Riavutosi, l’uomo legge una lettera che Orontea gli ha lasciato e si inorgoglisce per la fortuna capitatagli: essere amato nientemeno che da una regina.
Non contenti di ciò i librettisti fanno in modo che di Giacinta, credendola un uomo, perda la testa l’anziana Aristea, madre adottiva di Alidoro.

Della partita, oltre che il precettore Creonte, sono anche il valletto Tibrino e il (sempre ebbro) buffone Gelone. Nel lieto finale si palesa che Alidoro è niente affatto di umili origini: tutto ciò accade, perché, accusato di furto per un medaglione finito nelle sue mani, si scoprirà invece che gli apparteneva, poiché, dopo essere stato rapito in fasce e diventato corsaro, originariamente Alidoro era di nobile lignaggio (e il suo vero nome era Floridano). Così Orontea lo potrà impalmare, anche con la benedizione di Creonte, mentre l’incostante Silandra, pentita, potrà tornare dal suo Corindo.

Come si evince, si tratta di un girotondo allegro e scanzonato di avvenimenti, caratterizzati da personaggi emblematici dell’opera di intendimenti buffi di quell’epoca, in cui si possono riconoscere anche i tratti della Commedia dell’arte. Il tutto avviene attraversando un continuo flusso di sentimenti, cosparso da bellissimi e variegati recitativi di delicata musicalità, arie e ariette di rara bellezza. In questo caso vero capolavoro musical-drammaturgico, incentrato sul susseguirsi di sentimenti contrapposti, è soprattutto il secondo atto, che emerge in tutta la sua variegata bellezza: ecco dunque Orontea innamorata di Alidoro ( “Adorisi sempre “) il suo sdegno contro il ritratto che il pittore ha fatto di Silandra (“Oh coppia maledetta”) e di contro il suo meraviglioso canto d’amore per il giovane svenuto (“Intorno all’idol mio, spirate pur spirate, aure soavi e grate”), il mancamento di Alidoro (“Quel nome acui soggetto Amor mi rende… ohimè non posso più vacilla il fianco”), la lettura della lettera lasciatagli da Orontea e il diniego per il vecchio ardore per Silandra (“Amore e gelosia coppia fatale”).
Ma nell’atto c’è posto anche per l’aria buffa della vecchia Aristea (“Se amor insolente per vaga beltà di strale pungente bersaglio mi fa”), per lo struggente addio di Silandra per Corindo (“Addio Corindo addio”) e per un curioso modernissimo terzetto tra Tibrino, Alidoro e Silandra sul tema della pittura (“Dona il ritratto suo la tale, al tale ergo dargli vorria l’originale”). Sono solo alcuni dei momenti più belli di questo capolavoro.

Tutto viene narrato da Robert Carsen con grande leggerezza e, nel medesimo tempo, profondità: ogni personaggio, seppur calato nella contemporaneità, mantiene perfettamente, e senza forzatura alcuna, le sue precipue caratteristiche.
Il regista canadese, d’accordo con il direttore d’orchestra Giovanni Antonini, elimina il prologo in cui sono protagonisti Filosofia e Amore, scegliendo subito di ambientare l’opera in una cornice contemporanea, catapultando la trama a Milano (facilmente riconoscibile nelle scene create da Gideon Davy),e precisamente in una galleria d’arte, con tanto di ufficio che si affaccia sui grattaceli della metropoli lombarda: qui troviamo Orontea, la capo manager, nel momento in cui si sta preparando una grande mostra colma di grandi aspettative.
Dalla galleria, dove troneggia anche un grande letto testimone di effusioni amorose, e dall’ufficio di Orontea con divano e scrivania, la scena, girando, ci trasporta nel retro, dove insieme alla pattumiera sono parcheggiate tre grandi moto e, nel suo deposito, sono stipate tele con archivi e scaffali.

Intorno alla figura della capo manager, secondo l’arguta rivisitazione di Carsen, che prende un po’ in giro il vuoto e certa esteriorità del mercato dell’arte, rivivono gli altri personaggi: Corindo come suo più stretto collaboratore, Tibrino come addetto alla sicurezza, Giacinta come sua antica amica, Aristea è la donna delle pulizie, Silandra un’abituale frequentatrice della casa d’arte, e Gelone il capo degli inservienti che preparano le frequenti feste, mentre Alidoro arriva sbrindellato ma seducente, e fa innamorare sia Silandra che Orontea, a cui “la padrona del luogo” dona abiti dorati facendolo insuperbire.
Da qui strepitoso poi il finale, con l’allestimento della nuova mostra: al posto di Rothko, i quadri del nuovo padrone di casa, Alidoro, con una serie di nudi pittorici femminili della storia dell’arte, festeggiato da un pubblico variegato che lo stringe per domandargli autografi.

Ph: Vito Lorusso
Ph: Vito Lorusso

Uno spettacolo che ci ha veramente conquistato dal punto di vista dell’allestimento, che impreziosisce, rendendo ancor più briosa e seducente, un’opera seicentesca dai più considerata a torto noiosa, con buona pace dei tradizionalisti che avrebbero voluto forse vedere nello sfondo le Piramidi e non Milano. Un allestimento che ben si configura con tutta l’eccellenza della parte vocale.

Tutti gli interpreti infatti accompagnano il loro canto sempre in modo adeguato, con giusta adesione drammatica. A cominciare dalla protagonista, Stéphanie d’Oustrac, che interpreta una Orontea di forte femminilità, che si esprime in maniera perfetta nelle già citate arie di diverso intendimento (“Adorisi sempre” e “Intorno all’idol mio”). Stesso dicasi per Francesca Pia Vitale, che si destreggia nella parte di Silandra con grande capacità di accenti sia nel suo dolente “Addio, Corindo, addio”, sia nel duetto con il rinnovato amore per Alidoro.
Eccoci poi al controtenore Carlo Vistoli, perfetto Alidoro, dal timbro di calda pastosità, che esprime con sicurezza e tenerezza in “Care note amorose”. Di pari bravura è anche l’altro controtenore Hugh Cutting nei panni di Corindo, amante abbandonato da Silandra. Nel contempo ottimi davvero nella loro perfetta caratterizzazione il Gelone, sempre desideroso di vino di Luca Tittoto, Marcela Rahal nei panni della vecchia Aristea e Sara Blanch, en travesti come valletto. Concludono il cast l’autorevole Creonte di Mirco Palazzi e la Giacinta di Maria Nazarova.
Come già per il “Giulio Cesare” di Handel, che avevamo altrettanto apprezzato, Giovanni Antonini dirige in perfetto stile l’Orchestra della Scala con gli strumenti storici originali questo capolavoro.

L’ORONTEA
Antonio Cesti
Dramma per musica
Libretto di Giacinto Andrea Cicognini e Giovanni Filippo Apolloni
Orchestra del Teatro alla Scala
Nuova produzione Teatro alla Scala

Direttore GIOVANNI ANTONINI
Regia ROBERT CARSEN
Scene e costumi Gideon Davey
Luci Robert Carsen e Peter Van Praet

Personaggi e interpreti:
Orontea Stéphanie d’Oustrac
Creonte Mirco Palazzi
Silandra Francesca Pia Vitale
Corindo Hugh Cutting
Gelone Luca Tittoto
Tibrino Sara Blanch
Aristea Marcela Rahal
Alidoro Carlo Vistoli
Giacinta Maria Nazarova

durata: 3h 25′ inclusi intervalli

Visto a Milano, Teatro alla Scala, il 2 ottobre 2024

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