L’ottimismo della volontà: per questo andiamo avanti. Ricci e Franchi verso Kilowatt 20

Luca Ricci e Lucia Franchi (photo: Luca Del Pia)|Cherish Menzo (photo: Bas de Brouwer)
Luca Ricci e Lucia Franchi (photo: Luca Del Pia)|Cherish Menzo (photo: Bas de Brouwer)

Nonostante le innumerevoli difficoltà legate al Coronavirus, anche quest’anno Kilowatt Festival, che si tiene da 18 edizioni a Sansepolcro, piccolo comune toscano patria di Piero della Francesca, si farà.
Da lunedì 20 a domenica 26 luglio, 39 eventi fra concerti e spettacoli di teatro, danza, circo, formeranno un festival diffuso che si articolerà tra palchi all’aperto e chiostri della cittadina.
Padrino della manifestazione sarà in questa edizione Roberto Latini, che porterà in scena un suo storico spettacolo e alla cui opera verranno dedicati un incontro pubblico, una mostra e un progetto sulla drammaturgia.
Del festival ne parliamo con i direttori artistici, Luca Ricci e Lucia Franchi.

Anche in un momento così difficile ce l’avete fatta ad organizzare Kilowatt.
Sì, sembra che ce l’abbiamo (quasi) fatta, e ne siamo lieti. L’uscita del programma di un festival è sempre un traguardo importante, ma quest’anno ci ha dato più gioia che mai premere il tasto “invio” e vedere questo programma caricato per la prima volta sul nostro sito.

Quali difficoltà avete dovuto superare?
Prima di tutto mentali, ovvero motivare ogni giorno la nostra squadra e anche alcuni degli artisti, sul fatto che questa edizione si potesse fare, con modalità diverse dal solito, ma che il farla avrebbe avuto un significato più grande che mai. In certi momenti, ad inizio aprile per esempio, è stato difficile non arrendersi e continuare a lavorare, ogni giorno, per un progetto che non eravamo certi si sarebbe potuto fare. Gramsci lo avrebbe chiamato “l’ottimismo della volontà”.
Poi ci sono state difficoltà concrete rispetto al programma che avevamo costruito, che come sempre è fatto di centinaia di telefonate, email, chiacchierate con gli artisti, visioni di prove, sopralluoghi, contatti, scambi di idee. Non è stato piacevole veder saltare tanti titoli di artisti con cui avevamo progettato un programma ancora più ampio dei 39 titoli che riusciremo comunque a portare in scena. In questo caso, però, ognuno degli spettacoli annullati aveva una motivazione più che comprensibile per non essere realizzato: lì, per proseguire con Gramsci, diciamo che, insieme, agli artisti, abbiamo esercitato “il pessimismo dell’intelligenza”. C’erano progetti che non avrebbe avuto senso presentare a prescindere dalle condizioni oggettivamente difficili in cui ci troviamo a dover lavorare. In quei casi è stato meglio rimandare. Però l’edizione che ne viene fuori è comunque solida, con nomi di prestigio, tante novità interessanti, qualche ospitalità internazionale che si è “salvata” e ben 16 tra debutti e anteprime, il che significa che anche tanti artisti, insieme a noi, hanno continuato a crederci e a lavorare perché questo festival fosse possibile.

Quali sono state le idee che vi hanno guidato nell’organizzare Kilowatt in questi 18 anni?
Le idee centrali che animano il progetto di Kilowatt sono: tenere la barra ben dritta sulla qualità delle proposte artistiche, farsi sempre avanguardia nella scelta dei linguaggi, un certo anticonformismo anche all’interno di un mondo, come quello del teatro contemporaneo, che è più conformista di quanto crede di essere, e una fiducia continua, assoluta e incondizionata sul fatto che il pubblico è un pezzo essenziale della comunità teatrale, e deve stare seduto con diritto di parola al tavolo dove si prendono le decisioni culturali.

Che particolarità, secondo voi, possiede rispetto agli altri?
Rispetto alle particolarità di Kilowatt, messo in relazione con altri festival, ci piacerebbe piuttosto spostare leggermente la domanda e dirti quali noi crediamo che siano le particolarità dei festival del contemporaneo, nell’Italia del 2020. Di tutti i festival, non solo di Kilowatt. Non è un caso che, in questi giorni, ripartiamo noi ma ripartono anche Santarcangelo, Drodesera, Armunia e altri festival, tra cui includo Ravenna e Napoli, che fanno dell’affiancamento al lavoro degli artisti la loro cifra stilistica: i festival non sono più le allegre vetrine estive per scegliere qualche spettacolo da programmare in inverno, come qualcuno si immagina ancora, anche leggendo i regolamenti ministeriali.
Da 20 anni almeno, i festival sono le avanguardie non solo dei linguaggi, ma anche dei modelli organizzativi, e non a caso siamo qui, in tanti festival, tra i primi a riaprire, oggi, e a prenderci le responsabilità che ci appartengono, e come sempre anche qualcuna in più di quelle che ci toccherebbero, verso gli artisti e verso l’intera comunità teatrale… ma questo è un Paese al rovescio, si sa.

Cioè?
Ad esempio, il Ministero chiede alle residenze di rispettare regole stringentissime sulla percentuale del contributo pubblico che deve andare agli artisti – e fa bene -, ma non chiede lo stesso ai grandi teatri nazionali o ai Tric, che di economie ne gestiscono 200 volte tante. E anche qui, sulle idee sviluppate durante la quarantena e in relazione alla riapertura, la faccenda è simile: sono i festival a ripartire e non altri, che potrebbero farlo con ben altra forza e altri mezzi (qualche eccezione c’è, tra i grandi teatri, ma è rara).

Quali sono le direzioni che avete voluto imprimere a questa edizione così particolare del festival?
Sarà un festival molto in linea con il claim che abbiamo scelto, “Viaggio al termine della notte”, che è il titolo di uno dei più straordinari romanzi del Novecento, di uno scrittore ancora vivissimamente attuale come Céline. Nel suo libro dice che la notte non è qualcosa che finisce una volta per tutte, ma è una condizione ripetuta dell’uomo, con cui dobbiamo imparare a convivere.
Tanti degli spettacoli che presentiamo, sebbene concepiti prima del virus, hanno l’intelligenza di credere che con l’oscuro che è in noi si debba ingaggiare un dialogo quotidiano e costante, senza demonizzarlo, senza temerlo, senza pensare di poterlo vincere e che un giorno finirà. Che è poi la condizione che il virus ha posto con evidenza davanti ai nostri occhi: è pericolosa e superficiale quella confidenza assoluta e incondizionata che abbiamo sempre avuto nel poter programmare il domani.
In modi diversi, ci dicono questo i rimbambimenti di Andrea Cosentino, lo slittamento identitario e di genere di Cherish Menzo, la lotta ingaggiata con la memoria della perdita di un figlio in Mohamed El Khatib, quella contro l’eroina che abita addirittura il proprio padre, che invece dovrebbe essere una roccia a cui una bambina si poggia, nello spettacolo di Cinzia Pietribiasi, i differenti e creativi adattamenti contro un tempo che appare immobile dei giovanissimi Pietro Angelini e Collettivo Superstite, il forse-suicidio di Majakovskij dei Menoventi, le gelosie che rodono l’animo della Piccola Compagnia Dammacco, e si potrebbe continuare.
Sono tutti esempi di convivenza coi nostri demoni, senza eroismi, ma anche senza paura. Con qualche sprazzo di sole intenso, come quando arriverà Jérome Bel a portarci la sua incantata “Isadora Duncan“.

Cherish Menzo (photo: Bas de Brouwer)
Cherish Menzo (photo: Bas de Brouwer)

Perché la scelta di un artista come Roberto Latini come padrino, nume tutelare di quest’edizione?
Per tutto quello che Roberto ha rappresentato e rappresenta per molti di noi, ovvero un artista che ha saputo farsi maestro con l’esempio che ci ha dato sulla scena, per il rigore formale delle sue scelte artistiche, mai disgiunto dall’altrettanto elevato rigore morale delle sue scelte fuori dalla scena. Siamo contenti anche di aver fatto con lui un salto generazionale, tra i nostri padrini e madrine; nel senso che, dopo esserci fatti accompagnare da una generazione di straordinari maestri sessantenni (quali sono Mariangela Gualtieri, Ermanna Montanari, Virgilio Sieni e anche il Romeo Castellucci che per ragioni esterne alla nostra volontà l’anno scorso non abbiamo potuto omaggiare nei fatti), con Roberto scaliamo di una generazione.
In fondo questa scelta del padrino o della madrina di Kilowatt è un itinerario sentimentale e nulla più: a mettere in fila quelli che ci sono stati e quelli che abbiamo in mente potranno esserci, ci sono semplicemente due persone in comune, e quelle persone sono quella Lucia e quel Luca diciottenni o poco più che si avvicinavano al teatro e rimanevano incantati da certi percorsi artistici e di vita, sognando che un giorno avrebbero avuto qualcosa a che fare con quegli artisti e con quelle persone. Roberto era stata una di quelle folgorazioni, con un suo antichissimo “Jago”. Ed eccolo qui, padrino di Kilowatt 2020.

Dopo questa emergenza, sono cambiate le domande che deve porre il teatro allo spettatore?
Certi sfasamenti del sistema, certe incongruenze, sono emerse con maggiore forza di prima. Che gli attori e i danzatori siano gli anelli deboli della catena, per sovrabbondanza di offerta, è oggi più che mai sotto gli occhi di tutti. Che le grandi strutture non abbiano avuto la duttilità di accompagnare il loro pubblico dentro una situazione imprevista, è evidente, mentre questa capacità di innovare l’hanno avuta tante piccole realtà combattive e indomite che non si sono scoraggiate e hanno provato a tener vivo il dialogo tra la scena e i suoi amanti.
Queste inadeguatezze, accompagnate da misconosciute grandezze, non sono affatto nuove, e solo chi non le voleva vedere non le coglieva già prima. Da lì deriva l’incapacità di tanto teatro di saper essere fuoco che brucia, come il teatro dovrebbe sempre essere. Dunque, secondo noi, le domande del teatro non cambiano, e sono eterne e mai definitivamente risposte: sulla scena serve sempre che lo spettatore trovi Vita, Dono, Energia, Generosità, serve che si attivi un desiderio autentico.
E’ cambiato il modo di fare l’amore dopo il coronavirus? Potremmo rispondere che fare l’amore è sempre stato, e sempre sarà, fare l’amore. E allora perché dovrebbe essere cambiato il teatro?

Come vedete il futuro del festival? Avete già in mente qualche idea per il 2021?
L’anno prossimo ci aspettano moltissimi artisti internazionali, dal Senegal alla Corea, all’India, all’Irlanda, alla Repubblica Ceca, all’Austria, e altri ancora, tutti quelli che sarebbero dovuti venire quest’anno e non sono riusciti a esserci. Poi ci sono tutte le promesse fatte agli artisti italiani che abbiamo dovuto cancellare in questa edizione, promesse che manterremo.
Da settembre ci faremo stupire, affascinare, innamorare da nuovi artisti, nuovi progetti, nuove idee… che se sapessimo oggi quali sono, forse ci piacerebbero già di meno. Noi saremo in ascolto, come sempre.
Guarda cos’è successo con il bando della Residenza Digitale: ci ha messo di fronte a 400 proposte di creazioni digitali, di cui almeno una decina di straordinario interesse. Non l’avremmo mai potuto prevedere un anno fa, che avremmo trascorso un mese a studiare progetti di residenze digitali, e invece è accaduto, ed è stato sorprendente, vivo e futuribile. Dunque per Kilowatt 2021 restiamo aperti. A ogni sorpresa.

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