Il “Mare mio” di Antonino Varvarà. Quanto è salato il prezzo per inseguire i propri sogni?

Mare mio - Antonino Varvarà
Mare mio - Antonino Varvarà
Mare mio (photo: Tommaso Saccarola)

In lontananza, tra il cemento dei palazzi, se sei fortunato riesci a vederlo. Ti avvicini un po’ e inizi a sentirne l’odore. Vuoi toccarlo, prima con un dito, quasi intimorito, senti se è freddo; e se non lo è troppo, lentamente avanzi finché non ti sommerge o, con maggior coraggio, ti ci tuffi dentro. Per errore o per gioco, poi, capita di sentirne il gusto: è salato, e quel sale rimane sulla pelle, si asciuga addosso. Così ora hai il suo stesso sapore.

Un mare di ricordi, di partenze senza ritorno, di lacrime e di emozioni: è il mare di Antonino Varvarà, regista siciliano che con “Mare Mio” ha immerso nelle acque del Mediterraneo gli abitanti veneziani del Teatro Aurora di Marghera.

In scena quattro personaggi, seduti proprio in riva al mare, evocano i ricordi che quella immensa distesa d’acqua fa riaffiorare nei rispettivi pensieri: come fotografie di tempi perduti si rivedono bambini, sul bagnasciuga, a giocare e a ridere, ad ascoltare le musiche di Billie Holiday, a guardare nonne che ricamano a “punto gigliuccio”, tra i primi bikini osé degli anni ‘50 e balli lenti in cui tenersi stretti.

Quando si è piccoli tutto il mondo sembra un enorme gioco; si fanno tante domande e mamme e papà rispondono con belle favole. Poi si cresce ed iniziano ad essere confidati “segreti”  (“il gioco è bello quando dura poco” e storie che non sempre hanno un lieto fine).
Quei bimbi che giocavano sulla riva diventano grandi, adulti che fanno scelte ben precise e prendono decisioni: come Andrea, che ha deciso di andar via.
Lui, il protagonista del racconto, sceglie di cercare qualcosa “in più” di quello che la sua isola può offrirgli: l’enorme mondo che da bambino era tutto, crescendo è diventato stretto e piccolo.
Così, come un Ulisse dei nostri tempi, portavoce dei tanti emigranti in cerca di fortuna, fa le valigie e parte, salpa per mare alla scoperta di terre sconosciute, lasciandosi alle spalle madre, fidanzata ed amico, che lo piangono come fosse morto.
Qual è la meta? «Contare le stelle in fondo al mare», anche se riuscirci significa sacrificare il “tutto” che si aveva. E allora, quel mare, non lo si può più amare ed ammirare con la stessa ingenuità di un tempo, ed anzi lo si guarda quasi con odio, fino al punto di volerlo “sfidare”.

Il testo, scritto da Antonino Varvarà, alterna lirismo poetico e linguaggio dialettale, risultando a tratti faticoso sia per il pubblico che per i quattro giovani attori (Sara Bettella, Daniel De Rossi, Demis Marin, Antonella Tranquilli), “freschi” di Accademia. Ad alleggerire il peso delle parole, i giochi di luce (a cura di Giovanni Milanese) e la bella scelta musicale, che con semplici melodie suonate alla chitarra intervallano pause e silenzi, creando un’atmosfera romantica e malinconica.

Che siano marinai, pescatori, isolani, mediterranei o adriatici, tutti lo sanno: se hai sete e sei in mare, non bere mai la sua acqua! Lo ha capito Andrea, e quella sete che non può essere soddisfatta nonostante l’immensa distesa d’acqua che lo circonda, fa di lui un moderno Ulisse: è la sete della conoscenza, di sapere cosa c’è oltre l’orizzonte.
«Fatti non foste a viver come bruti ma per inseguir virtute e canoscenza» ripete Andrea. Vuol sapere cosa c’è oltre l’orizzonte, raggiungerlo e toccarlo con mano anziché accontentarsi di guardarlo da lontano. Proprio come quando, tra il cemento dei palazzi, vedi il mare e non ti basta, allora ti avvicini sempre più fino a sentirne l’odore e a volerlo toccare, prima con un dito e poi tuffandoti dentro.

MARE MIO
testo e regia: Antonino Varvarà
con: Sara Bettella, Daniel De Rossi, Demis Marin, Antonella Tranquilli
una produzione: Questa Nave/Teatro Aurora e La Biennale di Venezia
in collaborazione con l’Assessorato alla Produzione Culturale del Comune di Venezia
durata: 48’
applausi del pubblico: 2’ 18’’

Visto a Marghera (VE), Teatro Aurora, il 13 gennaio 2010

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